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La chispa de la vida

Regia di Alex de la Iglesia vedi scheda film

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La recensione su La chispa de la vida

di OGM
8 stelle

A film come questo non eravamo più abituati. E dire che, nell’epoca dei reality, l’argomento è di scottante attualità. Lo è più di quanto non lo fosse nell’ormai lontano 1951, quando Billy Wilder,  col caso di cronaca sensazionalistica presentato ne L’asso nella manica, ironizzava sul cinico strapotere della stampa. Alex de la Iglesia ripropone, secondo uno schema analogo a quello di allora, la stessa problematica, trasferita, però, nel mondo della televisione. La critica è rivolta contro quel sedicente giornalismo d’inchiesta che punta a fare audience portando i drammi della gente comune nelle case di altra gente comune, amplificandone l’effetto al punto che,  grazie al naturale meccanismo di immedesimazione, tutti finiscono per sentirsi protagonisti della storia.  L’eroe della situazione è Roberto Gómez, un pubblicitario sulla cinquantina che è rimasto disoccupato. Tanti anni prima, si era affermato, nel suo settore, per avere inventato uno slogan passato alla storia: Coca Cola, la chispa de la vida (la scintilla della vita). Adesso, invece,  a causa della crisi economica, si ritrova costretto a fare la fila, col curriculum in mano, davanti a tante porte che si aprono solo per comunicargli il solito rifiuto. A Roberto resta soltanto l’affetto della sua famiglia, che è tutt’uno con la preoccupazione di non poter più provvedere ai bisogni dei suoi figli, che sono quasi adulti e devono costruirsi un futuro, e alla felicità di sua moglie, divisa tra le poco gratificanti mansioni di casalinga e di insegnante precaria. A lei, Luisa, la donna che ancora ama come il primo giorno, vorrebbe poter regalare almeno un sogno: vivere una seconda luna di miele, nella stessa stanza dell’Hotel Paraíso di Cartagena dove loro due, giovani sposi, avevano trascorso la prima notte di nozze. Dopo l’ennesimo fallito tentativo di trovare un lavoro, Roberto si reca in quella località turistica al fine di organizzare il viaggio. Ma l’albergo non esiste più; è stato recentemente demolito, per far posto ad un grande sito archeologico, dominato da un vasto anfiteatro di epoca romana. Addentrandosi nel cantiere, Roberto ad un certo punto precipita, accidentalmente, finendo su una struttura metallica, e rimanendo con la testa infilzata da una barra di ferro. Le operazioni di soccorso, scattate immediatamente, si protrarranno per molte ore, a causa dell’apparente impossibilità di liberare l’uomo senza rischiare di provocare ulteriori danni al cervello. Un ritardo che lo stesso Roberto vorrà trasformare in un affare d’oro, approfittando dell’attenzione riservatagli dai media. La cavia si offre spontaneamente in pasto al pubblico, per ottenere un immediato successo  ed una facile ricchezza, e, soprattutto, per rivalersi delle  tante umiliazioni subite. L’opportunità di diventare una star val bene un po’ di sofferenza fisica. Il pensiero di Roberto, del resto, non ha tempo di soffermarsi sul mortale pericolo in cui versa, perché, in quel frangente, la principale urgenza è assicurarsi un contratto milionario, con una popolare trasmissione della sera,  per un’intervista  in esclusiva sul luogo dell’accaduto, prima che i medici riescano a trovare il modo di spostarlo per poterlo operare.  La suspense, che la regia di Alex de la Iglesia traccia con nitido e minuzioso realismo, è la somma di due opposte tensioni: l’ansia provata da Luisa per le condizioni di salute del marito, che possono aggravarsi da un momento all’altro, e la paura di Roberto di lasciarsi sfuggire quella che considera un’occasione irripetibile, la favolosa chance di tutta una vita. Questo angosciante paradosso è il cuore, pulsante all’impazzata, di una tragicommedia grottesca, nella quale la massa e l’individuo stringono un diabolico patto, diventando complici di un gioco sporco di denaro e bagnato nel sangue. Dimenticare se stessi per vendersi ed apparire è la nuova forma di abnegazione, votata al culto dell’immagine, dove l’identità è (ri)definita attraverso il ruolo che ognuno arriva a rappresentare nell’avvincente (e crudele) spettacolo della realtà. La disumanizzazione conosce tante forme, quasi sempre caratterizzate da una partecipazione rituale e collettiva allo scempio dei corpi e delle anime delle vittime designate. Questo film ce ne presenta una che ben conosciamo, e che si distingue per il fatto di essere, sempre più spesso, il frutto di un preciso calcolo da parte di chi, deliberatamente, si espone per esserne colpito.


Lo slogan citato nel titolo del film risale al 1975. Era il ritornello del celebre jingle televisivo che, nella versione italiana, iniziava con le parole Vorrei cantare insieme a voi.  Quella canzone ha accompagnato gli auguri natalizi della Coca Cola fino alla fine degli anni ottanta.

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