Regia di Daniele Ciprì vedi scheda film
Quasi un Gomorra grottesco e astratto, lontano dal reale e vicinissimo alla verità. Un Germi che rigermoglia, tra accelerazioni deformanti e tragedie ridicole. Surrealista, iperrealista, persino celentaniano (vedi la scena nel budello con i due obesi che si ostacolano a vicenda), slanci alla Demy, tra ballate e cantate in uno scenario pre/post apocalittico anni 70 ma quasi atemporale, perchè la disperata povertà non conosce tempi né luoghi. Archeologia industriale ma anche cinematografica, dove le citazioni filtrate e il nutrimento del Ciprì cinefilo si confondono con i cinema Ariston di periferia, che annunciano/promettono Vite perdute di Giorgio Castellani e mantengono (invece) pornazzi di quart’ordine tra risate generali e imbarazzi celati. Altra partitura maestosa e compiutissima di Carlo Crivelli, che Ciprì ha il coraggio di mixare con Nino D’Angelo e la Callas. Si parla, si mostra, ci si concentra su una Palermo quasi immaginaria, “teorica”, immateriale, ma c’è la mafia e una bambina che muore ammazzata, un risarcimento statale che non arriva mai e un usuraio che esige interessi da sinistra metafora del capitalismo contemporaneo, che impone le coordinate bancarie (strepitosa la sequenza al telefono dell’annuncio dell’imminente bonifico) e l’abito che fa il monaco, altrimenti ciccia. La tradizione è orale (la televisione, nonostante continui tentativi per aggiustare/sistemare l’antenna, non funziona), tanto è vero che è Busu (lo straordinario attore feticcio di Pablo Larraín, Alfredo Castro: Tony Manero, Post Mortem, No) a portare avanti la narrazione da un ufficio postale, con un muto vero che segue attentamente e molti finti sordi incapaci di ascoltare. L’ossidata fotografia, ovviamente dello stesso Ciprì, ha il colore della ruggine, quello delle navi da smantellare, e del livore, dell’astio, della rassegnazione da contenere. Dall’omonima opera di Roberto Alajmo (Mondadori) il debutto solitario dell’ex complice di Maresco è un film di strabordante talento, che in un’ora e mezza fa dimenticare il poverismo endemico di molto cinema italiano degli ultimi anni. Con un gigantesco Toni Servillo, una grandissima Giselda Volodi e un’Aurora Quattrocchi (nonna Rosa) che sintetizza come meglio non si potrebbe l’obbligatorietà di comportamenti che i disgraziati del mondo sono costretti, necessariamente, a contemplare.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta