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È stato il figlio

Regia di Daniele Ciprì vedi scheda film

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La recensione su È stato il figlio

di Kurtisonic
8 stelle

Che fine ha fatto la coppia che voleva inguaiare il cinema italiano? Ritengo che dopo il capolavoro nichilista Totò che visse due volte, Ciprì e Maresco abbiano gradualmente abbassato il loro potenziale trasgressivo e utopistico, dediti più al docu-fiction tentando forse di fare avvicinare schiere di spettatori più ampie  al loro cinema o magari perché costretti a cambiare registro per ottenere i soldi per girare. E’ stato il figlio(ennesimo buon titolo di un 2012 davvero generoso con il cinema di livello) sembra rivisitare con ferocia le produzioni storiche della commedia all’italiana.  Il risultato è apprezzabile, controverso piacevolmente, documentaristico nella misura in cui Daniele Ciprì, questa volta da solo, racconta non la descrizione di un luogo ma la sua evocazione. Questo è forse l’unico particolare in comune con i lavori precedenti insieme al (ex?) socio Maresco, E’stato il figlio possiede invece una ridondanza di dialoghi, di immagini, di angolazioni e prospettive che si distanziano dall’immobilità spaziale e temporale creata dal terribile duo palermitano. Ciprì opta per la rappresentazione visiva più esplicita, evita la trascendenza dell’immagine, agisce di rado per sottrazione mentre abbondano scenari ricchi di suoni, di particolari visivi, di immagini ricorrenti  che in parte riescono ad edulcorare un po’ una realtà pesantemente degradata. Il regista riesce ad alternare per sequenze, ricordi di una società lontana, che ripete i suoi riti ricattatori, i suoi vizi antichi, che se un tempo apparivano gioiosi espedienti per sopravvivere, la contemporaneità li spoglia di ogni giustificazione, lasciando solo da raccogliere testimonianze piene di rancore e di dolore. La deformità e  la mostruosità non sono più visibili nelle pance smisuratamente gonfie, sono trasformati in pensieri composti  di feticismo materiale, il turpiloquio e l’osceno sono dentro spazi angusti, afosi, in attesa di imputridire e mescolarsi con le macerie che atti e scelte precise degli esseri umani compiono e di cui si subiscono passivamente le conseguenze. Ciprì sposta lo sguardo di denuncia da una società fallita e dentro il baratro, per mostrare e abbattere l’istituzione privata per eccellenza e tradizione, la famiglia che al proprio interno cova abiezione morale e disfacimento e perdita di ogni identità. Il film è girato in Puglia, ma richiama alla mente in maniera perfetta quella periferia materiale e spirituale abbandonata da ogni tentativo di riorganizzarne la dignità, non solo di Palermo ma di qualsiasi altra città sfregiata. Con toni fra il tragico e il farsesco, nonostante qualche facile eccesso caricaturale, emerge la miseria dei desideri, che non trovano altro capo di ispirazione se non nell’arricchimento, per il bene di tutti, della famiglia, dei figli. Non c’è l’impatto deflagrante e lirico di Cinico Tv e la sua ricerca formale, eravamo ai  primi anni 90, con  la Rai3 di Guglielmi, Mani pulite, un secolo fa.. Probabilmente Ciprì ha considerato che il Pubblico è, dopo venti anni da quelle esperienze di cinema,  notevolmente ricambiato, nutrito con adeguato mangime e inadatto ad assaggiare gusti troppo forti. E  forse non è neanche sbagliato.

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