Regia di Daniele Ciprì vedi scheda film
La rabbia, triste e ruspante, della periferia. La Palermo di Daniele Ciprì è la terra di confine in cui ognuno si sente un piccolo re, seduto su un trono di fango, tronfio del monopolio su un dolore che solo lui può trasformare in qualcosa di grande. Sentirsi potenti nella miseria è una forza incontenibile che, dal niente, genera le storie, fatte di lacrime, di urla, di botte, di colpi di pistola. Nei luoghi dimenticati il racconto è affidato alla voce del cuore e delle armi, che raccolgono gli echi del mondo per rimodellarli in incubi reboanti, da cantare nelle piazze. Anche in questo film, tutto nasce da una favola, che parte dalla realtà per avvoltolarsi nella menzogna e diventare una leggenda popolare. Un uomo la narra ai clienti in attesa in un ufficio postale. E, attraverso le sue parole, il tempo si riavvolge, ripercorrendo i capitoli di un romanzo familiare acceso, nel bene e male, dal colore del sangue. C’è un cinema italiano che parla di noi estremizzando il concetto, sostituendo la nostra identità nazionale con un intreccio viscerale di sogni e frustrazioni: un essere mutante che attraversa i bassifondi della modernità come una caricatura dell’umanità verace, che si muove da disadattata in un ambiente grigio e privo di calore. Le vene pulsano, disperatamente, mentre tutto l’universo, intorno, va in rovina, creando cumuli di rifiuti e ammassi di rottami arrugginiti. Nicola Ciraulo si nutre di quelle scorie, e le metabolizza in un’energia primitiva ma impastata di dignità ed intrisa di un grande senso della famiglia. È il capostipite di un’ansia di riscatto, che si attacca alle cose materiali, ma solo nel momento in cui tutto il resto sembra definitivamente perduto: una figlia uccisa dalla mafia, ed un figlio buono a nulla, la cui presenza in casa è diventata fastidiosamente inutile. Intanto, i suoi anziani genitori vivono di fantasie e pensieri di morte, mentre la moglie Loredana non può far altro che vivere all’ombra della sua impotenza di uomo privo di mezzi e di cultura. Il suo amico Giovanni è la sua unica interfaccia su un mondo che, di fronte a lui, non sa farsi capire, mentre si fa incalzante nel chiedere e si mantiene restio nel dare. Starlo a guardare dal di fuori, rimanendo estraneo alla sua logica, ma desiderando ardentemente di conquistare un posto al suo interno, è la condizione grottesca che genera mostri: uomini e donne costretti a costruire, nella propria nicchia di emarginazione, un perverso meccanismo di autodifesa, che combatte a proprio modo, in quell’angusto covo di rancore, gli effetti del sistema che regola la società. Sopravvivere è una necessità basata sulla gestione del denaro e dell’onore: è un’esigenza quotidiana che si può soddisfare soltanto con i segreti equilibrismi dell’arte di arrangiarsi, esercizi oltremodo complessi il cui buon esito è costantemente minacciato dalla vergogna e dal timore di apparire inferiori. Arrampicarsi sul relitto di una nave semisommersa per recuperare attrezzi e metalli richiede coraggio ed esperienza: la pratica di rovistare nei detriti senza farsi male è la sostanza di un’esistenza passata a tramutare le briciole in qualcosa che luccichi come l’oro. Anche il lutto può essere convertito in moneta. E l’innocenza essere venduta. L’assenza di vita e di colpa sono aspetti della povertà che possono essere messi a frutto, mettendo a tacere i sentimenti. È questo il prodotto di una sorta di magia nera, che con le mani nude plasma oggetti dall’aria. È la stregoneria evocata da un gioco di bambini, che, intorno ad un falò, si divertono a far scoppiare le bombolette scariche raccolte nell’immondizia. Il rito si tramanda come una sinistra filastrocca, nella quale la verità non si rivela, per non scoprire il trucco che consente, nonostante tutto, di resistere integri, sottraendosi al giudizio del mondo.
“Sua madre ci tiene a distinguersi: tanto fuori tutto è puzza e sporcizia e buio, tanto dentro ogni cattivo odore è bandito, coperto da un deodorante alla lavanda spruzzato da poco e in abbondanza. La casa deve sempre apparire linda e ordinata, persino dopo che in soggiorno è stato commesso un delitto.” (dal romanzo È stato il figlio, di Roberto Alaimo)
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