Regia di Daniele Ciprì vedi scheda film
È stato Tancredi. Dopotutto, Tancredi è quel figlio che non riesce ad essere uomo, che non ha la forza di farsi carico della famiglia, che non può provvedere al sostentamento economico futuro.
È stato Tancredi. Non c'è ombra di dubbio: non sa lavorare, ha 21 anni e poco senso di responsabilità sulle spalle, non sa aggiustare un televisore e non è mai stato come la sorella Serenella.
È stato Tancredi a distruggere il sogno dei Ciraulo, a graffiare la Mercedes nera che ha permesso al capofamiglia di essere qualcuno dopo una vita passata nell'anonimato a raccogliere ferro e a lasciarsi arrugginire.
È stato Tancredi. Il caso è chiuso.
Per il suo esordio da regista in solitaria, dopo il divorzio da Franco Maresco, Daniele Ciprì firma un'opera che chiarisce una volta per tutte chi era la mente creativa dietro Cinico Tv o Totò che visse due volte. Il casellario di volti, corpi e luoghi desolanti e desolati, torna con la forza dirompente dell'implicito grottesco a mostrarsi sullo schermo. Attori professionisti e facce sconosciute riempiono un dramma che, pur se liberamente adattato da un romanzo di Roberto Alajmo, è lo specchio della contemporaneità che stiamo vivendo, afflitta da crisi economiche, usurai e bisogno di apparire.
Nella periferia di un'Italia in cui vige la legge della comunità, in cui si chiacchiera affacciandosi sulle rampe delle scale o alle finestre di casermoni popolari, in cui i bambini giocano ancora per strada e i lavori si inventano, sopravvivono i Ciraulo. La morte dell'amata figlia Serenella, uccisa da un proiettile della mafia diretto al cugino Masino, regala la possibilità di agguantare una cospicua somma di denaro, 220 milioni di lire. Una cifra immensa, troppo grande da gestire da chi i soldi non li ha mai visti.
Ancor prima di toccare con mano le banconote che tardano ad arrivare, i Ciraulo cominciano a spendere i loro soldi e si indebitano fino al collo. La soluzione migliore appare quella di tamponare la situazione ricorrendo agli aiuti di un usuraio che non ha mai lo stesso volto, cagiante come le condizioni a cui concede i suoi prestiti. Quando tutto sembra volgere al peggio, l'arrivo dei soldi muta la disperazione in drammatica felicità. Cosa comprare? Cosa serve a tutti? La risposta la trova Nicola, il capofamiglia. A tutti serve una nuova dignità, una nuova immagine che può arrivare con qualcosa di materiale e visibile: una Mercedes nera. Anche nonno e nonna si lasciano conquistare dal nuovo oggetto del desiderio: apparire è meglio che essere, la Mercedes è migliore del loculo di fronte al mare, del bar da restaurare, del motorino o del nuovo appartamento. Al contempo però la Mercedes, per un atto di spavalderia giovanile, diventa la bara di Nicola e degli ideali dell'intera famiglia. L'unità, l'affetto e l'amore, lasciano posto alla disperazione per il futuro economico e nonna, matrona che ritrova la sua volontà decisionale senza incontrare opposizioni, decide per tutto e tutti.
No, non è stato Tancredi. Con una recitazione esagerata e una fotografia volutamente arrugginita come il ferro delle navi abbandonate a contatto con l'acqua del mare, Ciprì dirige i suoi attori e costruisce situazioni al limite dell'inverosimile trovando un'ideale terra di mezzo dove la dimensione onirica incontra quella neorealistica, dove il non detto sposa la gestualità dei corpi e il rivelato protegge una verità destinata a rimanere segreta. O a riemergere in un pomeriggio di fila alle poste, raccontata a un cliente sordo.
Se Toni Servillo e Alfredo Castro non hanno più bisogno di elogi, Fabrizio Falco è un'interessante scoperta che non sfigura di fronte alla bravura di Giselda Volodi, Aurora Quattrocchi e Benedetto Raneli nel poco speranzoso finale.
Voto: 9.
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