Regia di Mrinal Sen vedi scheda film
“La bugia legale prevarrà sulla verità morale”. Nell’India a due velocità descritta da Mrinal Sen, la giustizia segue, per i ricchi, la strada degli espedienti giuridici che cancellano la colpa, e, per i poveri, quella dell’indifferenza burocratica che rimane insensibile al loro dolore. La morte del piccolo Palan, un ragazzino orfano di madre, andato a servizio presso la famiglia di Anjon Sen, si riduce così ad una pratica amministrativa da espletare, dalla compilazione del referto autoptico alla firma sotto l’autorizzazione a riconsegnare il corpo ai familiari. Nessun processo segue la constatazione che il bambino è deceduto, nella casa dei suoi datori di lavoro, per intossicazione da monossido di carbonio. L’evento è liquidato come un incidente, quasi come un’inevitabile inconveniente in una situazione in cui, nonostante l’eccezionale ondata di gelo che ha investito Calcutta, non c’è, in casa, un posto caldo in cui ospitare il bambino per la notte. Nessuno è responsabile se Palan, di sua iniziativa, ha deciso di trasferirsi in cucina, un angusto stanzino privo di ventilazione, in cui la signora Sen ha lasciato accesa la fiammella della stufa. Il diritto, ben lungi dall’essere una garanzia di uguaglianza, è soltanto una materia accademica, una disciplina professionale per la gente colta, in un Paese in cui la teoria è, in generale, una questione intellettuale per pochi eletti, senza alcuna ricaduta sulle condizioni di vita della maggioranza della popolazione. Ciò che vale per le ideologie politiche, a cominciare dal marxismo, si applica anche alla giurisprudenza: il sapere rimane confinato entro le alte sfere della società, senza produrre alcun beneficio sulle fasce deboli, che rimangono nella miseria e nell’ignoranza, in una situazione di irrimediabile subalternità ed oppressione. Con quest’opera Mrinal Sen attacca, ancora una volta, l’incapacità della classe dirigente indiana di fungere da motore del progresso e trascinare l’intera nazione nel necessario processo di rinnovamento. Una chiusura miope ed egoistica, retaggio della tradizionale mentalità basata sulla distinzione in caste, impedisce agli appartenenti ai ceti più privilegiati di guardare oltre i propri interessi e desideri, per mettere le proprie risorse materiali e culturali a vantaggio del bene comune. Sono istruiti, ma non illuminati, e soprattutto incapaci di aprirsi a coloro che - magari senza rendersene del tutto conto - continuano a considerare uomini di serie B, utili come forza lavoro, ma poco importanti come persone. Il caso è chiuso racchiude, nel suo titolo lapidario, il crudele suggello di un immobilismo – travestito da fatalismo - che imprigiona un intero Paese nella perpetuazione degli stessi fatali errori di sempre: quegli atteggiamenti passivi e acritici, radicati nel pregiudizio e nell’oscurantismo, che la conquistata indipendenza non ha potuto in alcun modo eliminare.
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