Regia di Mrinal Sen vedi scheda film
Un’amara riflessione sul ruolo della donna nella società indiana alla fine degli anni settanta: una condizione che la vede sfruttata ed obbligata a mantenere la propria "rispettabilità". La storia di Chimayo (Chinu) Sengupta, una ragazza che lavora fuori casa per mantenere gli anziani genitori ed i quattro fratelli, dimostra come tale principio non si applichi solo verso l’esterno, ma anche e soprattutto verso i membri della propria famiglia. Si è accettati, ma si resta umanamente invisibili, finché ci si rende utili ad uno scopo; non appena si sgarra, si diventa subito malvisti. Questo film è fatto sostanzialmente di pensieri inespressi, che emergono dai gesti e dagli sguardi, ed è quindi atipico per Mrinal Sen, il cui linguaggio cinematografico è solitamente basato sulla realtà oggettiva del vissuto individuale e degli eventi storici, documentata in maniera esplicita dalla parola. Qui, invece, la cronaca tace, rimanendo sullo sfondo, mentre l’attenzione si concentra sull’atmosfera, carica di tensione, di un interno domestico, tra le pareti che fanno da cassa di risonanza alle ansie ed ai timori, tanto da farli risuonare verso gli appartamenti confinanti. Mentre tutti, nel caseggiato, si interrogano sulle cause del mancato ritorno a casa di Chinu, a dominare la scena è il silenzioso fermento di un sospetto, che diviene, a seconda di chi ne è portatore, un anticipo di angoscia o di disprezzo. Splendida è la resa teatrale di una vicenda che si svolge nel corso di una notte, nella quasi totale assenza di eventi, ai margini di una Calcutta che, per una volta, rimane fuori campo, come una presenza mastodontica e minacciosa, ma più immaginaria che effettiva: la metropoli matrigna, con i suoi sette milioni di abitanti, che ogni giorno divora le sue vittime nelle strade soffocate dal traffico caotico ed infestate dalla criminalità, appare più che altro come un mostro mitologico, di cui si racconta la ferocia come fosse parte di una superstizione popolare. All’enorme marchingegno trituratore di esistenze umane si contrappone, al di là della macchina da presa, la fragilità delle singole persone, la loro incapacità di rispondere con la necessaria forza, fisica e morale, alle nuove sfide imposte da un cambiamento sociale ed economico che procede in maniera aggressiva e convulsa. La persistente chiusura mentale – in cui Mrinal Sen individua il principale morbo dell’India post-coloniale – è una cecità che uccide la libertà ed impedisce la solidarietà: due beni irrinunciabili per lo sviluppo materiale e culturale di una nazione. In questo film il messaggio politico, altrove affidato alla voce della militanza politica o della élite intellettuale, si lascia delicatamente filtrare dal dramma di un gruppo di povera gente: individui incapaci di enunciare, o anche solo incamerare, assunti teorici sulle ragioni del mancato progresso, o sui modi per poterlo realizzare, ma perfettamente in grado di definire, con la loro vita modesta e ritirata, i termini del profondo malessere di un popolo.
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