Regia di Volker Schlöndorff vedi scheda film
New York, gruppo di famiglia in un interno. Il padre Willy (Dustin Hoffman) fa il commesso viaggiatore, si sposta da uno Stato all'altro degli USA, ma a 63 anni sta cominciando a impazzire. La madre Linda (Kate Reid) vive in casa con la speranza che il marito smetta di viaggiare e lavori a New York. Il figlio Biff (John Malkovich) ha misteriosamente, da giovane, lasciato che la sua vita non lo portasse da nessuna parte a causa di un misterioso avvenimento che ha vissuto all'età di 18 anni, e che vede coinvolto il padre. Il fratello di Biff, Hap (Stephen Lang), è un donnaiolo che punta a defraudare i suoi capi cercando di farsi valere. I due figli hanno concezioni molto diverse di come sta impazzendo il padre e del perché, Hap ritiene che ci voglia maggior rispetto per un uomo che ha dedicato la sua vita all'idea che niente abbia valore se non si vende, Biff ritiene invece che il padre l'abbia eccessivamente mitizzato, e non gli abbia mai insegnato che nella vita si può anche fallire. La madre dal canto suo, terribilmente trattata dal padre, lo difende, anche a costo di accusare i propri figli. Sono gli anni '80 americani, e sembra non salvarsi nessuno di loro, costretti a fronteggiare una realtà di incomprensioni e di ostilità dovute alle singole insoddisfazioni di ciascuno di loro. E mentre nella casa di fronte il figlio del vicino è diventato avvocato presso la Corte Suprema, Biff cerca un lavoro a New York per far contento il padre esaurito..
Per chi non conosce il testo di Miller, è immediata l'idea che debba giungere il momento della morte del protagonista, il commesso viaggiatore, presto e immediatamente, magari sviluppando la storia sulla base di un simile antefatto, ma il progetto è tutt'altro. Osserviamo gli ultimi giorni di un uomo medio americano che vede il proprio mondo crollare, sbriciolarsi su sogni infranti e fin troppo irrealizzabili. Benché il migliore amico di Willy sappia che per un commesso viaggiatore, che conduce la vita a lavorare per continuare e continuare ad affrontare la povertà e i debiti, i sogni sono l'unico riparo. E' un approccio un po' facile, quello di Schlondorff, che realizza un film su commissione per la televisione, e che sembra aver compreso il testo originario fino a un certo punto. Perché alla fine tutte le possibili implicazioni psico-sociologiche legate alla demenza senile di Willy Loman sembrano ridursi poi a un profondo senso di colpa per un colpo di grazia che ha dato alla propria integrità e all'integrità della sua famiglia (un twist inaspettato alla fine del film) nel suo passato. Il rapporto padre-figlio perde il suo spessore, rimane molto importante, sulla carta, in superficie, ma anche molto semplicistico nell'individuazione di una causa originaria di tutti i mali. Intanto Willy viene pure licenziato, e in nome di una dignità ormai non necessaria rifiuta un'altra offerta, volendosi come mantenere coerente con il fallimento del proprio sogno (americano?) e con il lento cupio dissolvi che porta alla volontà della propria morte (già il titolo realizza lo spoiler), per la riscossione dell'assicurazione per la propria famiglia. "Niente ha valore da morto" dice il suo migliore amico. Ma che valori ha ormai la vita?
Pessimista il punto di vista di Schlondorff, che sembra trovare nel rapporto fra esistenza e partecipazione sociale un distacco tale da provocare la follia. Peccato che sia troppo indeciso tra una messa in scena teatrale (spesso gli attori sono tutti in scena) e una puramente cinematografica (frequenza di primi piani e di movimenti di camera), per un risultato scostante, con momenti di tensione familiare molto ben resi e altri momenti che concedono troppo alla compassione. Hoffman è molto bravo, è lui quasi che salva il film, ma cerca invano di sfrondarlo da quell'usura da film per la tv che invece il film trattiene per la scostanza della regia.
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