Regia di Bennett Miller vedi scheda film
Billy Bean (un discreto Brad Pitt fin troppo sornione) è un General Manager di pallabase che non guarda le partite. Al massimo le segue in radiocronaca, seduto solitario mentre immagina le azioni. Così evita sofferenze e sconforti. Pensa che in qualche modo la sua presenza possa essere motivo di sfortuna. Per quale ragione? Forse la risposta è nascosta nel suo passato e nel guidare sgommando lontano da tutti come un folle emarginato. Billy è fondamentalmente un frustrato. Con chi ce l’ha? E perché?
“È incredibile quanto non si conosca il gioco per il quale abbiamo gareggiato per tutta la vita”, chiosa il film di Bennett Miller. E per il suo protagonista le cose stanno proprio così. Partendo da un evento sportivo delle World Series verificatosi nell’ottobre del 2001, “Moneyball” introduce una curiosa quanto attuale considerazione sull’importanza dell’entità dei capitali investiti in una qualsiasi attività. Quando poi si tratta di un team che gareggia nel più importante campionato mondiale di questo sport (la MLB, Major League Baseball), le considerazioni si fanno ancora più pertinenti.
La squadra è quella degli Oakland Athletics, una delle franchigie medio/piccole della competizione, la quale dispone di un budget pari a un terzo rispetto a quello dei New York Yankees, per esempio. Per Billy c’è quindi da lavorare e da gestire nei limiti imposti dalle risorse. Durante questa fase di presa di coscienza, conosce un fresco laureato in Economia (Jonah Hill), e con lui costruisce un bizzarro asse tra il valore dell’interpretazione statistica e la prevedibilità (ammesso che ne abbia) del gioco.
L’approccio è nuovo: spuntano codici per stimare i giocatori necessari a un obiettivo (goal) che consenta la partecipazione ai playoff. Ma il baseball può essere ridotto a una mera scienza che interpreta i dati assemblandoli seguendo regole matematiche apparentemente infallibili? Oppure occorrerà il supporto di maturi conoscenti del settore che hanno dalla loro l’esperienza e l’intuito che i freddi calcoli non potranno mai avere?
Candidato a 6 premi Oscar, “L’arte di vincere” racconta la storia vera tratta dal libro del giornalista Michael Lewis, trascritta per lo schermo da Steven Zaillian e Aaron Sorkin (quello di “The Social Network”, per intenderci). Celebrando i valori di riscatto tipici del paese in cui si svolge, segue quasi sempre l’idea del mito americano, talvolta lodandolo talaltra sminuendolo. La riduzione operata dai due sceneggiatori di successo da’ luogo a un punto di vista piuttosto contemplativo, sconnesso da un passato che avrebbe meritato maggiore risalto a dare forza e drammaticità al personaggio di Pitt.
Molte storie cinematografiche hanno calcato i campi sportivi dalla forma di diamante. Anche questa si inserisce quasi nel filone dei film di genere, distaccandosene grazie a un’angolazione abbastanza inconsueta, dato che la rappresentazione dell’evento agonistico non è così marcata. Anzi, spesso è demandata a filmati di repertorio recuperati per sottolineare la veridicità dell’accadimento.
E accanto a questi unisce la frenesia per la ricerca di un posto nel mondo messa in atto da una persona già grande, associandovi quella più grossolana dei grandi vecchi scout, per poi intervallare con la presenza contenuta ma abbacinante dell’allenatore interpretato da Philip Seymour Hoffman (cosa non riesce a fare con alcuni movimenti delle braccia e calzando un semplice cappellino!).
Sarei stato curioso di vedere come avrebbe diretto la vicenda Steven Soderbergh, licenziato poco prima dell’inizio delle riprese e sostituito da Miller. Rimango col dubbio (o semmai con una segreta speranza) di una vicenda raccontata sottolineando l’aspetto retributivo dei giocatori e il loro impiego quasi meccanico. Avrei preferito un approfondimento su questo aspetto, qui appena accennato e preso poco in considerazione; alla fine Billy sembra un manager irritabile e disinteressato come tanti altri. Non so quanto basti la rispolverata del suono di una chitarra rossa per salvargli le chiappe da una collocazione appena appena sentimentalistica.
Istruzioni per gli italiani che non sanno niente di baseball: Ricky Martin non è un giocatore e la base non c’entra con la geometria. Tutto il resto è storia sportiva recente. Andate a vedere qualche partita e imparate le regole, rigidi pantofolai del pallone.
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