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L'arte di vincere. Moneyball

Regia di Bennett Miller vedi scheda film

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La recensione su L'arte di vincere. Moneyball

di OGM
8 stelle

Un attore come Brad Pitt. Un gioco come il baseball. Questo film parla la lingua dei sogni americani a buon mercato, quelli che costano il prezzo di un biglietto, per entrare al cinema o allo stadio. E che forse non fanno pensare abbastanza, però in compenso non fanno alcun male. La forza e la debolezza di questa storia è la facilità dell’illusione. Quella che, nella formula aritmetica per la squadra vincente,  riduce semplicisticamente la scienza ad un’alchimia numerica; e però, allo stesso tempo, ridona valore alle cose del cuore, quelle in cui basta credere per vederle magicamente avverarsi. Il film è davvero troppo ingenuo per creare falsi miti. Il pericolo è platealmente scongiurato dal divismo sfacciatamente sbruffone del protagonista, quel quarantenne belloccio che un tempo è stato un giocatore, ed ora è il dinamico manager degli Oakland Athletics. E anche da quel sarcasmo a denti stretti di cui è spolverata la scena, e che ricorda le innocenti gag da commedia familiare,  così clamorosamente fuori posto in quella che parrebbe voler essere la classica faccenda per uomini veri. La storia, in effetti, sembra autoesaltarsi, mentre, di soppiatto, si prende un po’ in giro, ridacchiando di certe sue cadenze vagamente agiografiche e dei suoi stereotipi da leggenda sportiva. La teatrale virilità di Billy Beane, che sottolinea la sua natura volitiva con gesti da spot pubblicitario, è un gioco a carte scoperte, è la citazione caricaturale di un filone cinematografico che  va da Rocky a Ogni maledetta domenica, inseguendo traguardi impossibili con la grottesca disinvoltura di chi si sente infallibile. L’ambizione è ridicolizzata al pari dello scetticismo, mentre la fiducia è una risorsa depotenziata dal realismo, tanto che lo stile biografico tende più volte a declinare verso la leggerezza della favola buffa.  Guardando questo Moneyball si finisce per amare, col sorriso sulle labbra, quello che all’inizio poteva risultare irritante, ossia quella smaccata condiscendenza al tono celebrativo che, mescolato ai frammenti di documentario, crea la tipica atmosfera della saga cinematografica. C’è un sottinteso autoironico che, poco a poco, si rivela, riscattando l’apparente seriosità della prima parte, robustamente sostenuta dai riferimenti alle lauree in economia a Yale, alle borse di studio a Stanford, alle scelte epocali che ti cambiano la vita, all’altisonante mistero che si cela dietro le teorie matematiche. I cliché intramontabili della gloria e del successo riaffermano il proprio ruolo portante nello spettacolo popolare, e intanto scherzano con il proprio aspetto pomposo di monumenti coperti dalla patina del tempo, e in fondo fragili, al pari degli uomini che li hanno creati.  Il film procede con passo squisitamente barcollante, mirabilmente incerto tra idealismo e venalità, tra attivismo megalomane e ripiegamento intimistico, scoprendo ora uno, ora l’altro dei volti della sfida agonistica. Particolarmente riuscita è la personalizzazione di questo dualismo, che viene perfettamente interpretato, con tutte le sue sfumature, dalla figura del protagonista, impegnata in un costante equilibrismo tra gli opposti, tra l’utopia e il disincanto, tra l’euforia e la frustrazione, tra la convinzione e l’insicurezza, in un’ambiguità recitativa che è la drammatizzazione e la metafora del dilemma. Il film non conosce punti fermi, spesso si ha la sensazione che basti inclinare diversamente lo sguardo, o soffiare sulla superficie dell’immagine, per modificare la gradazione del colore, e vedere la certezza digradare nel dubbio, o l’enfasi retorica virare verso i gorgheggi della parodia. Bennett Miller ci regala un raffinatissimo esercizio registico, che riproduce, con straordinaria sensibilità psicologica, il tentennamento che caratterizza il nostro rapporto con tutto ciò che non sappiamo decidere quanto sia vero, giusto ed importante, e, soprattutto, in quale misura debba entrare a far parte della nostra anima, e della nostra vita.

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