Regia di Roberto Faenza vedi scheda film
Non c’è dramma, in questo adattamento del romanzo di Peter Cameron, dove James Sveck era una sorta di “giovane Holden” del Terzo Millennio in moto retrogrado attorno al proprio asse. Le ambiguità e i sottotesti, che su carta davano un senso al (riempivano il?) vuoto decisionale dell’adolescente newyorchese, sono liquidati nei primi minuti, come se ci si volesse sbarazzare in fretta di una complessità dura da trasformare in linguaggio filmico. L’omosessualità in latenza diventa effeminatezza ammiccante, la muta solitudine è trasformata in verbosità alienante: Sveck si dichiara reietto a cui «piace poco parlare», ma non fa altro che conversare con chiunque. Persino con il cane. Faenza appiattisce i personaggi di contorno - degradandoli dal rango di compless(at)i e problematici nodi della psiche di Sveck a macchiette su sfondo extralusso - sfruttando poco e male un cast internazionale di rispetto. Così, dopo un incipit di intenti introspettivi, il film si perde in uno sterile girotondo in confezione indie, scandito da commenti musicali atti a ribadire l’ovvio e da una grammatica filmica in balia dell’incertezza. L’onnipresente voce off di Sveck e i suoi sguardi in macchina sono trucchetti vecchi come il cinema, che (non) nascondono una preoccupante assenza di idee. Dopo lo scult Il caso dell’infedele Klara e questo tentativo Usa, forse è il caso che Faenza rientri in patria.
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