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Quando la notte

Regia di Cristina Comencini vedi scheda film

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La recensione su Quando la notte

di M Valdemar
4 stelle

Quando la notte ... appartiene agli amanti.
Quando la notte ... fuori fa freddo.
Quando la notte ... t’ispira versi struggenti e poi scrivi solo quisquilie. Diluvi di ovvietà.
Ecco, Quando la notte pare abbia voglia di affrontare un tema delicatissimo e ostico: l’immane fatica di essere e fare la madre (considerata, stupidamente, la cosa più “normale” che ci sia), e quel filo sottilissimo che separa un attaccamento profondo da una violenza latente, pronta a scatenarsi all’ennesimo pianto, capriccio, sacrificio.
L'inizio attrae: a paesaggi alpini spettacolari (location Macugnaga, ai piedi del Monte Rosa) si contrappongono un volto stanco e sofferente, una dimora isolata e inquietante, un’irrequietezza crescente e tendente al peggio. Una madre (una discreta Pandolfi), sola, trascina affannosamente sé stessa e suo figlio, bambino di quasi due anni (“i terribili due“ come dirà un medico), ad una vacanza in una casa di montagna il cui unico altro abitante, nonché proprietario, è il silenzioso e ruvido Manfred (un poco efficace Timi). L’atmosfera sospesa, i continui bisogni di attenzione del figlio, l’inadeguatezza a ricoprire il proprio ruolo di madre, la solitudine, portano ad una progressiva alterazione della percezione, ad una tensione irrespirabile, finché, ciò che s’era indotti a sospettare, accade: incidente o atto criminoso?
Posto che l’interrogativo ha dei rischiosi risvolti che non possono che evocare i fatti di Cogne, fin qui tutto sommato il film regge, interessa. L’entrata in azione di Manfred, anima che si scopre essere misogina e tormentata da un duplice abbandono (la madre, la moglie), prelude ad un’avvilente opera di banalizzazione, di deviamento dalla materia principale verso un più ordinario e insignificante, malriuscito, dramma sentimental-amoroso. Insulsaggine preterintenzionale.
Dai silenzi, dall’ansietà, si passa al troppo detto, al troppo esposto, con dialoghi e scene che stupiscono in negativo per quanto sanno spesso essere goffi, miseri. L’interesse viene presto fagocitato dalla noia e dal fastidio. Non solo, quindi, svigorisce quanto fatto prima, ma anche non riesce a dare un senso ai meravigliosi panorami montagnosi, rendendoli mere immagini da cartolina, da sfondo intercambiabile con qualsiasi altro.
Il colpo di grazia giunge col finale: gratuito, posticcio, pasticciato, farneticante. Ritroviamo la (ringiovanita) protagonista tornare al paesello quindici anni dopo, come un qualsiasi Sapore di Mare, che finalmente conosce in senso biblico il zoppo Manfred (altrimenti immutato nell’aspetto): ora, al di là che forse durante le riprese c’è stato uno sciopero dei truccatori, s’assiste increduli a frasi, situazioni (anche simboliche), scelte più che stereotipate proprio ridicole, in cui si capisce, assurdamente, che per la donna quanto accaduto ivi tempo addietro è stata solo un’avventura qualunque che però le ha cambiato la vita. Quasi una specie di racconto di formazione alla Stand by Me. Andrebbero piuttosto formati sceneggiatori e registi, soprattutto quando una sola persona ha la pretesa di ricoprire entrambe le cariche.

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