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Paradiso amaro

Regia di Alexander Payne vedi scheda film

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La recensione su Paradiso amaro

di (spopola) 1726792
8 stelle

Payne raccontare in maniera inedita e poco piagnucolosa (ma con punte di lancinante commozione) il dissesto che crea ogni malattia terminale e il conseguente lutto che produce. Strappa ovviamente qualche lacrima (credo che fosse inevitabile) ma non è mai ricattatorio, il che visto il soggetto, è davvero un grande pregio.

E’ molto interessante osservare la maniera, il modo, in cui Alexander Payne  in Paradiso amaro – The Descendantsin originale) riesce con pochi tocchi e senza troppe acrobazie linguistiche, a distruggere l’abusato e frusto “luogo comune hawaiano” che identifica l’isola come un agognato Eden ancora immacolato ed ecologicamente sostenibile (ovviamente molto lontano dal reale). Il suo lavoro di demistificazione lo svolge infatti prima di tutto utilizzando la fotografia (la scena d’apertura per esempio, quando la cinepresa riprende una donna in barca che sorride con i capelli al vento, immersa in un mare cristallino e illuminata da un sole luminoso e splendete, ma fa  anche intravedere sullo sfondo la “modernità” devastante di brutti e moderni palazzoni dalla superficie lucida e riflettente) e poi “costringendo” i personaggi della storia, a confrontarsi con il passato, e soprattutto con il trauma della morte (argomento già affrontato con successo e partecipazione anche con le sue precedenti opere, a conferma che si tratta di una tematica che gli sta particolarmente a cuore) che fa diventare ancora una volta l’elemento nodale e disturbante del racconto: In fondo la perdita non è al centro della vicenda di ognuno di noi? – ha dichiarato nel corso di un’intervista -  Perdiamo tempo, le persone care, alla fine la vita stessa, perché  anche questa ci abbandona, e nessuno può scampare a tale conclusione. Tutte le pellicole che adoro – a partire da La dolce vita, sono focalizzate sulla perdita di qualcosa. (…) Per non parlare poi del fatto che si consuma un’esistenza a desiderare qualcosa che poi si scopre essere inutile o errata, proprio come in un film di John Huston. Ma non tutto è sbagliato, o totalmente dannoso e spesso proprio la perdita è un momento di rottura che apre l’esistenza dei superstiti a nuove prospettive. In questa pellicola per esempio, la morte di sua moglie Elizabeth King è funzionale al fatto che Matt proprio partendo da questo lutto e da ciò che è accaduto prima, può finalmente iniziare a capire quello che è giusto e che si deve fare, cosa che non aveva invece mai considerato in precedenza. Un po’ come capitava, dieci anni fa, al protagonista di “A proposito di Schmidt”. Anche qui poi c’è una compresenza di dolce e amaro dove però - questa volta – l’ amaro resta molto più vivido perché messo a confronto e in contrasto con il presunto paradiso delle Hawaii. Amo le Hawaii proprio per quell’ ambiguità di fondo che hanno, visto che è comunque ancora un luogo che fa sentire l’uomo piccolissimo di fronte alla rigogliosa esuberanza della sua natura che resiste ancora indomita nonostante gli scempi. Un luogo insomma davvero inusuale che prova a superare il tempo e le ingiurie dell’uomo, dove più che in altre parti,  puoi fare una passeggiata e scomparire senza lasciare tracce, nuotare ed essere attaccato da uno squalo, addirittura morire a seguito di un banale incidente, come accade appunto a Elizabeth. Basta davvero poco, e tutto cambia. Ma questa non è crudeltà: sulla Terra, forse solo l’uomo è crudele. La morte, invece, rientra nell’ordine naturale delle cose, in qualunque modo e momento avvenga.”

Per più di una ragione allora si può considerare Paradiso amarocome l’ideale prosecuzione di un percorso in cui è lo spaesamento per qualcosa che accade all’improvviso a provocare lo spostamento della percezione delle cose nello sguardo del suo protagonista che è obbligato così a  riflettere e a fare i conti con se stesso.

Del resto, come ben allude il titolo originale, è proprio la discesa verso il basso (le radici) il filo rosso che unisce i due principali temi narrativi della pellicola, l’agonia di Elizabeth a cui accennavo prima, e il destino da riservare ai possedimenti ereditati dal marito dai sui avi. Tutti e due lasciano a chi rimane un qualcosa di ostile e di sconosciuto, uno scompenso insomma, come la “vera” vita segreta della moglie mai nemmeno supposta, o una terra ignota destinata alla spartizione, prima valutata solo sotto il profilo della possibile resa economica anziché per la sua bellezza.

Questa è dunque un’ottima occasione per il regista, che per altro sfrutta molto bene, per raccontare in maniera inedita e poco piagnucolosa (ma con punte di lancinante commozione) il dissesto che crea ogni malattia terminale e il conseguente lutto che produce. Strappa ovviamente qualche lacrima (credo che fosse inevitabile) ma non è mai ricattatoria, il che visto il soggetto, è davvero un grande pregio.

Tratto dal romanzo “Eredi di un mondo sbagliato” della scrittrice hawaiana  Kau Harte Hemmings (sceneggiato dallo stesso Payne con la collaborazione di Nat Faxon e Jim Rash) il film è la storia di  Matt King, un ricco  avvocato bianco che discende in linea diretta da una principessa Hawaiana da cui ha ereditato, insieme a una nutrita compagine di cugini e parenti vari, una splendida spiaggia incontaminata che potrebbe rappresentare un’ottima ragione di guadagno. Caparbiamente dedito al lavoro ma poco attento a tutto il resto,  il nostro protagonista (come accade spesso nel cinema americano), è obbligato ad aprire gli occhi sulla sua vita quasi all’improvviso a causa di un fatto traumatico che senza alcun preavviso, finisce per fargli rimettere in discussione ogni cosa (che qui si configura in un incidente sportivo che ha ridotto la moglie allo stato vegetativo del coma profondo e irreversibile).

Tutto preso dalla sua attività e quasi sempre estraneo alla vita della famiglia, l’uomo è costretto così suo malgrado a confrontarsi con le due figlie che quasi non conosce: la piccola e anticonformista Scottie di appena dieci anni, e la maggiore, la diciassettenne Alexandra,  abbastanza matura per la sua età, ma  ribelle e poco conciliante (basta vedere come è “conciato” il  fidanzatino che si è scelta per comprenderne l’originale posizione di pensiero), che aveva litigato con la madre dopo aver  scoperto che stava per chiedere il divorzio per la presenza nella sua vita di un amante della cui esistenza il marito nemmeno lontanamente sospettava.

Mentre la donna – dopo essere stata salutata teneramente da amici e parenti che si alternano al suo capezzale per assisterla e accompagnarla nel momento estremo dell’ultimo viaggio - viene staccata dalle macchine che la tengono in vita per l’esplicito desiderio espresso in un precedente testamento al quale tutti si adeguano (bell’esempio di assoluta civiltà questo rispetto delle volontà dichiarate anche per il fine vita), Matt e le figlie partono alla ricerca dello sconosciuto amante con intenzioni ambivalenti in un viaggio ancora una volta appunto “dolce e amaro”, che avrà sviluppi ed esiti davvero inaspettati.

Contemporaneamente, l’uomo è però chiamato anche a prendere una decisione rispetto ai terreni di famiglia, fra business economico (sponsorizzato da cugini e parenti) e tutela dell’ambiente.

L’elaborazione del lutto è comunque sempre in primo piano (e l’acqua, sotto la cui superficie Alex si immerge per nascondere al padre il pianto, ne rappresenta indubbiamente il primo non banale passo che corrisponde al momento dello spaesamento doloroso di una dipartita).

Se il confronto di una famiglia con la morte costituisce la principale linea narrativa, prima di riaffrontarla nel coinvolgente finale che è uno dei veri punti di forza dell’intera rappresentazione, il film però imbocca nel mezzo anche altri sentieri narrativi, vi si smarrisce un poco e poi li abbandona, per altro senza averli percorsi davvero fino in fondo (ad esempio quello che all’inizio potrebbe sembrare il substrato di una storia basata sul conflitto generazionale fra padre e figlie - che pure c’entra - portata avanti con toni decisamente troppo leggeri, soprattutto per quel che riguarda le uscite e le trovate un po’ surreali della più giovane). Questo – anche per la forma scelta per la rappresentazione e non sempre omogenea - toglie qualche compattezza all’insieme, unitamente a quella specie di road movie (che finisce per occupare più spazio del dovuto) alla ricerca dell’amante della moglie che prende corpo dopo la scoperta del tradimento, intersecandosi con la questione della terra ereditata dalla principessa, visto che il fedifrago è proprio l’agente incaricato della trattativa di vendita che ovviamente non andrà a buon fine.

 

Come in  tutto il cinema di Payne comunque, i dialoghi sono di sorprendente freschezza (anche se qui prevalgono spesso brevi silenzi altrettanto empatici): nello script ho inserito diverse microsequenze senza parole – ha dichiarato ancora il regista  nel corso dell’intervista a cui accennavo sopra - che forse testimoniano il mio amore per il cinema muto: quando la famiglia si ritrova nel finale davanti alla televisione con un po’ di gelato e una coperta per esempio, o nella sequenza in cui Matt fa il giro dell’isola di corsa quasi a scatti, quando Alexandra è immersa nella piscina a urlare silenziosamente il suo dolore. Anche questo mi pareva un contrasto interessante: i miei copioni sono sempre molto scritti, i dialoghi sono intensi, ma è possibile sceneggiare anche i silenzi e qui credo di averne dato una buona dimostrazione.

L’arcipelago hawaiano ritratto da Payne è comunque sorprendentemente abitato da corpi poco attraenti, normali e persino inaspettatamente “imperfetti” (qui le persone – spiega Matt presentando i suoi numerosi e sciatti cugini – più sono ricche e più assomigliano a barboni), e anch’essi, come ha scritto Maria Buratti, diventano fonti di smarrimento, in cui il tempo deposita strati confusi e contraddittori, tracce che via via si perdono: si pensi all’anziana madre di Elizabeth, disorientata dall’Alzheimer, e ovviamente a Elizabeth stessa, che distesa inerme sul letto in una straniante e spaventosa immobilità e collegata alla vita solo dai tubicini e dai fili delle macchine, diventa lo specchio davanti al quale gli altri personaggi (il marito, le figlie, i genitori, addirittura la moglie del suo amante) riversano le proprie emozioni, grottesche nel loro essere fuori misura, senza risposta né riscontro, incapaci di far aderire ricordi e illusioni all’evidenza di quel corpo che appare loro quasi sconosciuto”.

Come ho già detto in apertura, pur perfettamente calato nei canoni del genere che potremmo definire del “prendi in mano la tua vita e ricomincia ad andare avanti”, il film ha però il merito di darci delle isole Hawaii, pur splendide e magnificamente fotografate, un’idea poco turistica e in controtendenza, decisamente reale, giusta cornice per ambientarci una storia che pur nel dramma, ha tratti di leggerezza (ma anche di assoluta profondità), delicata e malinconica (spesso però anche ironica e buffa, a volte decisamente divertente), che pone situazioni sulle quali è giusto ed opportuno riflettere con una spregiudicata posizione della mente scevra da pregiudizi. Il tutto, ben sorretto e supportato peraltro da una scrittura misurata ed elegante, e soprattutto da un cast intonatissimo, anche nei piccoli ruoli qui così importanti, tutti tratteggiati con stupefacente abilità anche mimetica. Svetta ovviamente la maiuscola prova di un George Clooney che qui fa poco il divo e che al contrario è giustamente e straordinariamente credibile nella sua appassita “normalità”. Scarsamente  sexy  insomma, come appunto richiede il suo ruolo, ma profondamente “umano”, che si conferma bravo e convincente nel rappresentare il disagio, la sorpresa e la dolorosa, incredula tolleranza, di un uomo che, sull’orlo della crisi della mezza età – sempre un momento molto cruciale della vita - cade nella voragine di una tragedia familiare nel corso della quale scopre, prima di essere stato un pessimo padre, e poi di essere anche un marito tanto assente da non essersi mai reso conto dell’esistenza di una parallela relazione adulterina da parte di sua moglie. Non sono però inferiori le prove altrettanto smaglianti di Shailene Woodley  (Alexandra), Amanda Miller (Scottie), Nick Krause (Sid) e di un ritrovato (e come al solito “grandissimo”) Beau Bridges (davvero impagabile e fra i migliori in campo nel breve ruolo di Hugh). Brava anche Patricia Hastle nel rappresentare la “traumatica” immobilità di Elizabeth.

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