Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
Opera di premeditato irrealismo, "Il villaggio di cartone" non tende tanto alla parabola o all'apologo (men che meno alla predica) quanto ad una sorta di casereccio teatro brechtiano, in cui i personaggi sono consapevoli della loro valenza dialettica. Olmi è così: prendere o lasciare. Il suo è un cinema testardo e improbabile (o almeno inconsueto). Richiede una buona dose di quella "sospensione dell'incredulità" rivendicata dagli scrittori romantici inglesi dell'Ottocento e ripresa, in diversi frangenti, da svariati cineasti. Olmi è uno di questi, un romantico in fondo, fuori tempo massimo. Ha spesso prediletto, a fianco alla componente realista/documentarista, un controcanto allegorico, specie da metà anni 80 in poi. Anche qui, come in "Centochiodi", il regista di Treviglio de-sacralizza la religione cattolica, intesa come Dogma ed Istituzione. Se in quell'occasione, venivano inchiodati i libri, in questa è un'intera Chiesa a venire sventrata di tutte le sue ricchezze simboliche/materiali, per essere riempita da quella parte di Umanità più in difficoltà, "gli ultimi che saranno i primi", i protagonisti loro malgrado dell'attualità più problematica dell'era globale: i flussi migratori. In questo non-luogo, al riparo dalla temperie del presente (significativamente, rappresentato da enigmatici suoni di sirene, elicotteri e mitragliate, provenienti dall'esterno), non si consuma una progressione psicologica o ideologica, ma si discute, ci si scontra, si soffre sulle contraddizioni di una Fede che "non basta a fare del bene", su religioni che faticano a dialogare nonostante i molti tratti in comune e sulle varie anime del Terzo Mondo, trattando i "tipi" (dalla prostituta al terrorista) con uno sguardo stilizzato a metà fra il cinema politico degli anni 70 e l'opaca trasparenza dei sguardi e gesti bressoniani. "Il villaggio di cartone" è un film di silenzi, di allusioni, nonostante la situazione si presti ad un confronto verbale intenso: questo paradosso dà la misura della statura registica di Olmi. Certamente, non mancano i passaggi a vuoto nello script dello stesso Olmi, ma quello che conta è che l'opera risulti stimolante, viva, sghemba, dolorosamente impura.
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