Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
Gli oggetti che identificano l’appartenenza al culto non sono altro che feticci svuotati di ogni valenza spirituale, divina, umana. Vacui simboli che permettono agli esseri spauriti dei nostri tempi di costruirsi armature e case in cui “proteggersi” e sentirsi al riparo, da un mondo esterno minaccioso e incomprensibile ma soprattutto dalle proprie insicurezze e fragilità. Esistenze cartonate.
Di una chiesa come altre, di quelle moderne, brutte, erette dal (e nel) grigio e triste cemento ne viene ordinata la demolizione: vengono così asportati gli addobbi sacri e anche il crocefisso, con atti quasi profanatori che hanno la disarmante crudezza dell’indifferenza elevata a bruta ritualità. L’anziano prete, dapprima sconfortato e deluso, anzitutto dalle intorpidite istituzioni ecclesiastiche, scorge una recrudescenza della realtà, quella vera, quotidiana e tangibile, nell’occupazione della parrocchia da parte di alcuni immigrati clandestini africani in cerca di rifugio.
Il prete - uomo devoto ma turbato, che parla a voce alta per non sentirsi solo - riscopre e applica i concetti di bene e fede, di carità e accoglienza; trovando, con ciò, il malanimo e l’ottusità dei tutori dell’ordine. Un ordine cartonato, accartocciato su leggi(ne) stupide intrise di paure ch’elargiscono poi alla massa.
Ermanno Olmi è profondo conoscitore e studioso dell’uomo e dell’umanità, intesa non come genere di appartenenza ma come natura, essenza stessa dell’uomo e del suo complesso di valori e della sua (in)capacità/necessità primaria di relazionarsi col prossimo, in un contesto mutevole e instabile quale è il mondo attuale. Il suo è un canto allegorico e sincero, tutto girato in interni cupi e freddi, che non vuole - almeno nelle intenzioni - arrogantemente pontificare, ma semplicemente raccontare esemplari pezzi di vita, vista e vissuta, affidando - imprudentemente - la morale alle “considerazioni” (come tali definite nei titoli di coda) di Gianfranco (monsignor) Ravasi e Claudio Magris, che si rivelano essere perlopiù riflessioni ridondanti e predicatorie.
Il passo eccessivamente lento, affannoso, faticoso della messa in scena riflette quello della figura del prete (ottimamente interpretato da Michael Lonsdale) e probabilmente dello stesso Olmi, il quale pecca d’ingenuità nel definire un po’ troppo schematicamente e semplicisticamente caratteri e personaggi (anche tra gli stessi “ospiti”) e nell’affrontare con poca accuratezza talune situazioni (il medico sbucato da chissà dove; l’esagerato alternarsi di rumori di elicotteri, spari di mitra, vetri rotti che fa pensare di trovarsi a Beirut; i militari con curiose divise - Haber pare un pompiere - che prima armati di tutto punto irrompono e poi mogi mogi svaniscono senza nessun motivo).
Il villaggio di cartone non riesce quindi a essere incisivo quanto vorrebbe il regista, fermandosi a un’esibizione di elementi simbolici e metaforici talora elementari e infarcita di pensieri “giusti” ma “pesanti”, che rischiano di ottenere l’effetto opposto.
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