Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Restiamo convinti che Steven Spielberg sia uno dei pochi depositari del meraviglioso nel cinema, oggi come ieri, indipendentemente dall’evolversi di mode, tecniche e dimensioni: il bambino dentro di lui parla a tutti i cinefili, che come diceva Truffaut «hanno sempre 6 anni». È con un po’ di tristezza, quindi, che accogliamo quest’opera, zoppicante nonostante la potenza al galoppo del suo protagonista indiscusso, il mezzo purosangue Joey. Fiero e testardo, instancabile e coraggioso, è il fulcro del racconto, metafora vivente che corre a spron battuto per unire i popoli divisi dal conflitto mondiale: durante la guerra passa di mano in mano, da un esercito a quello avversario, dall’amore di un ragazzo a quello di una bimba, ma le redini le tiene sempre lui. I coprotagonisti umani restano sullo schermo per poche manciate di minuti, e nessuno lascia il segno (eccetto il grande Niels Arestrup): Spielberg li mette in scena con precisione teatrale (il film è basato sul romanzo di Michael Morpurgo ma anche sulla pièce che ne è derivata), su sfondi di nitore fordiano, ma il suo cuore batte solo per Joey. La noia lambisce le belle inquadrature, finché War Horse non si riaccende di meraviglia nella mezz’ora finale, vero e proprio film nel film che lancia il cavallo a perdifiato contro ogni barriera (letteralmente), verso un miracolo di umanità nella no man’s land. Troppo tardi per amarlo, ma in tempo per sentir galoppare il cuore.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta