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War Horse

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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Souther78

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La recensione su War Horse

di Souther78
6 stelle

Quanti umani sono morti nelle guerre ce lo insegnano a scuola, ma quanti animali hanno subito la stessa sorte è assai più complesso appurarlo. Con quest'opera, a tratti ingenua e irrisolta, Spielberg ci parla di uno degli 8 milioni di cavalli morti nella Grande Guerra, ma anche di un conflitto che ha segnato un triste passaggio.

La maggior parte delle storie non ci sono note, accanto a una storia più o meno ufficiale e condivisa. Una delle moltissime verità che non insegnano a scuola è quella degli animali non umani uccisi durante le guerre (umane). 8 milioni di cavalli (forse anche 10) sarebbero morti soltanto nella prima guerra mondiale, per agevolare lo sforzo di uccidersi tra umani.

 

Spielberg ha l'indiscusso merito di aver posto l'attenzione su una vicenda (come tante, del resto) sotto la luce del sole, ma apparentemente invisibile. I suoi meriti, però, non finiscono qui: la sua narrazione spazia dalla dimensione intima e intimista dell'individuo, con i suoi sogni e desideri, a quella della famiglia, con le sue dinamiche spesso conflittuali, e fino alle formazioni sociali modeste (amicizia) e immani (eserciti, folle).

Il cavallo, più che protagonista vero e proprio, è il trait d'union, o l'espediente narrativo che ci permette di scandagliare realtà lontanissime. Qui risiede il massimo pregio dell'opera, cioè nella sua capacità di spaziare in ambiti differenti, e comunque a partire da un conflitto che è ormai dimenticato nella memoria collettiva, mentre dovrebbe restare come monito perenne. Monito, soprattutto, della viltà e ipocrisia di quelli che le guerre le provocano, o dichiarandole apertamente, o seminando sentimenti di odio e contrasto nei popoli: di questi ultimi il panorama nostrano e quello europeo stanno dando spregevole sfoggio negli ultimi anni, attraverso fantocci massoni che fingono di governare paesi, mentre eseguono mandati di gruppi che considerano le persone come nemici da debellare o schiavi da sedare (vd. Bill Gates, Klaus Scwhab, George Soros, etc.): vediamo, quindi, ingenui ragazzini frettolosamente arruolati dietro paroloni tanto altisonanti ("eroismo", "coraggio", etc.) quanto manipolatori, inneggiando ai sovrani che sono i loro primi aguzzini. In questi conflitti insensati c'è ben poco spazio per l'umanità, che, però, si riaffaccia prepotente non appena il "nemico" passa dall'essere una bandiera o un'uniforme, all'essere "qualcuno" con una storia e dei sentimenti. Episodi così, narrati ad esempio anche in Stalingrad, raccontano fatti realmente accaduti, che dovrebbero indurre più di una riflessione sulla manipolazione necessaria per spingere una persona a desiderare arruolarsi per uccidere i propri simili, e sulle reali intenzioni di chi quella manipolazione la produce.

 

La Grande Guerra ha segnato la prima significativa transizione verso la guerra meccanizzata, e questo viene rappresentato in modo sublime dall'uso dei cavalli nel traino di mastodontici cannoni.

La guerra di Spielberg sembra quasi sfumare, dalle formazioni effettivamente in conflitto (di cui comunque poco viene detto), al contrasto tra natura e tecnologia (bellica, in questo caso): dai campi arati, dove il confronto è tra gli elementi naturali, l'uomo e gli animali, ai campi di battaglia, dove l'ambiente è svilito, mortificato, abusato. Dalla pace bucolica, si passa a pantani monocromi che sembrano ingoiare colori e perfino sentimenti, a strutture civili devastate, a foreste sventrate e arbusti in fiamme, a campi di filo spinato che sembrano riprodurre il calvario biblico, sostituendo il filo spinato alle spine. Non c'è pace in guerra. Un concetto elementare, ma forse dimenticato. Non ci può essere pace in guerra. L'unico sollievo è la fuga o l'isolamento. Ammesso che sia possibile sfuggire, o isolarsi.

 

Purtroppo, però, accanto a un'etica e un'estetica da riferimento, non possiamo non osservare anche diverse gravi lacune, che affliggono irrimediabilmente l'opera svilendone il risultato finale.

La trama, nonostante numerosi accorgimenti narrativi e un piglio registico tutt'altro che trascurabile, accusa pesantemente l'inverosimiglianza delle situazioni e degli sviluppi: soluzioni sbrigative o contraddittorie si susseguono continuamente: animali e persone sembrano palesemente a servizio delle esigenze di copione. Non aiutano di sicuro i dialoghi, che sia in versione originale che in quella doppiata presentano tedeschi per parlano tra loro in italiano (o inglese), con accento tedesco, e francesi che parlano italiano (o inglese) con espressioni francesi qua e là. I protagonisti veri sembrano di scarso spessore attoriale, tanto che qua e là si stenta perfino a distinguerli nella massa, mentre alcuni attori di maggior spessore sono invece relegati a ruoli marginalissimi: potrebbe essere una scelta precisa, determinata dalla volontà di non imporre nelle locandine o nell'immaginario dello spettatore una preminenza degli attori umani rispetto a quelli animali. 

 

Non c'è che dire: Spielberg sa costruire pathos perfino attorno a un cavallo che risale un crinale. Purtroppo ciò non basta a colmare certe ingenuità narrative, nè a rimediare a un generale senso di inverosimiglianza della vicenda.

 

In conclusione, un'opera lodevole, interessante, sotto diversi profili originale e stimolante, da vedere e sulla quale riflettere, ma decisamente non un capolavoro della cinematografia.

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