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Morte a Venezia

Regia di Luchino Visconti vedi scheda film

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La recensione su Morte a Venezia

di EightAndHalf
8 stelle

Tadzio, Tadzio, Tadzio, la passione di Gustav Aschenbach è la definizione stessa della passione, così come Morte a Venezia è la definizione stessa del cinema di Luchino Visconti, quasi un lascito terminale e definitivo (ma fortunatamente non il suo ultimo) del suo riprendere da esteta ottocentesco approdato nel Novecento passioni grandiose e inestimabili senza cedere mai al semplice spaccato umano ma suggerendo, ammiccando, destreggiandosi fra un'ambientazione e un'altra senza tradire mai la sua presenza nella storia (talmente invischiata con essa da annullarsi, in essa). Il suo quattordicesimo lungometraggio è un ibrido che cerca nel Cinema l'anello di congiunzione fra Musica e Letteratura, perché è assorbito dall'astrazione ideale che il cinema normalmente non evoca (perché, il più delle volte, non può farlo) ma che qui, grazie a una maestria visiva che non si lascia mai andare ma rimane posata ed equilibrata, vibra nei volti, nelle zoomate, nelle parole in lingua italiana o straniera, nella calma apparente dei salotti tipicamente viscontiani e nei quadri vittoriani che Visconti dipinge di una Venezia misteriosa e mai stata più affascinante e meno folkloristica. Nonostante, da un punto di vista narrativo, il film sia esile esile e raccontabile in una manciata di secondi, gli spunti visivi che offre sono quasi sproporzionati, traboccanti, e fuoriescono dai confini dello schermo quasi a coinvolgerci emotivamente con delicati arpioni d'acciaio: la musica che da intradiegetica diventa extradiegetica, l'invasione dei musici da strada che se ne escono con una vitale pernacchia (il che la dice lunga sulle divisioni sociali che Visconti ha sempre osservato e a cui spesso ha preso parte diretta), il tramonto rosa all'orizzonte con tanto di barca alla Monet in mezzo, lo scirocco insidioso reso dal vento e dall'uniformità cromatica della spiaggia, le tensioni spirituali ancora più che erotiche di un uomo di cui, tramite gli occhi suoi e nostri, riusciamo a conoscere l'umana sensibile frustrazione, quella propria di un uomo che ha scelto l'Arte e non la Vita, e che nel tentativo smisurato e nobilissimo di tramutare la prima nella seconda è destinato a crollare, benché il suo destino fosse stato già segnato da un fallimentare passato da compositore rievocato in alcune immagini molto suggestive ma fin troppo esplicative, unico tranello (forse inevitabile nello sforzo mastodontico di Visconti e del suo film) di una pellicola qui e lì perfetta, che possiamo dire per una volta con grande spirito patriottico "nostrana", ma internazionale. La ridondanza, ben frequente spesso nei libri, in cui ci si può permettere di fare ellissi e deformazioni cronologiche, qui è un tutt'uno con il tono stesso dell'opera, e non stona un attimo con l'incendere lento e leggiadro della cinepresa e con l'attitudine registica di un Visconti maturo e in piena forma, distante dalle originarie tentazioni neorealiste e ammortizzante l'eroismo (in positivo e in negativo) di molte altre sue opere (quanto era bello e poco intimista Senso!), molto più vicino probabilmente al suo vero capolavoro umanoLe notti bianche, in cui l'essenza umana si rendeva palpabile, e le emozioni crescevano come nel più coinvolgente e salutare dei film sentimentali, con la tendenza però, più semplice che in Morte a Venezia, a un onirismo magico inestracibile dalla memoria dello spettatore. Qui è tutto molto più calmo e molto meno spettacolare, ma in maniera meno evidente gli animi scalciano (come si dimostra nei flashback) e furibondi si chiedono dove vada a parare la propria esistenza e se la distanza che l'Arte ideale impone fra l'uomo e la Vita sia oltrepassabile cona la semplice moralità: nell'atto meno accetto e più scandaloso che forse allora si potesse immaginare, Mann e Visconti non sono interessati a un ottocentesco diario di uno scandalo, ma sono più presi dallo Streben antiromantico e fallimentare su ben altri livelli che il protagonista subisce e che il giovane Tadzio, fatalmente, incoraggia, forse per un'ingenuità che si traveste da civetteria, rispondendo agli sguardi di Gustav, incrociandolo, accattivandolo; o forse tutte le azioni di Tadzio sono solo nella mente di Gustav, e noi filtriamo una realtà apparentemente oggettiva e che in realtà cerca di mantenersi calma di fronte al furore dell'Arte e di tutta la carica negativa che l'amico di Gustav illustra esplicitamente. 
La natura affascinante e ambigua dell'Arte, l'impossibilità dell'artista-vate, la morte dell'evasione Artistica. Rimane l'orma di una bellezza umana ma intoccabile che come un cherubino o come una statua miracolosamente scolpita si dispone con i piedi in acqua e scompare, dalla vista e dalla memoria, nella splendida solitudine dell'Arte e dei suoi più intimi furori.

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