Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
All’inizio, ovviamente, un titolo: “Der Tod in Venedig” (Thomas Mann 1912). Tradotto in italiano “La morte a Venezia”. L’articolo a determinare, circoscrivere un evento. Unico ed eccezionale.
Luchino Visconti dirige però “Morte a Venezia”. Il taglio è funzionale, cambia il senso di queste tre parole, e naturalmente conferisce una chiave di interpretazione all’opera. L’assenza dell’articolo rende l’indeterminatezza e l’universalità insieme: non della morte. Non di una morte. Semplicemente, morte. Una, nessuna e centomila.
Perché questo film non solo propone una trasposizione del celeberrimo racconto dello scrittore tedesco. Ambiziosamente, aspira ad approfondire ed ampliare la riflessione sull’estetica e l’etica. Facendone un quadro storico e di costume profondo e complesso
“Chè la Bellezza, odimi bene, Fedro, la Bellezza soltanto è divina e visibile ad un tempo, ed è per questo che essa è la via al sensibile, è, piccolo Fedro, la via che mena l’artista allo spirito” (Thomas Mann da “La morte a Venezia)
Gustav Aschenbach è un artista che ha dedicato la propria vita alla Bellezza. “Etica ed estetica sono tutt’uno” affermerà Ludwig Wittgenstein (da “Quaderni”) e Gustav ne è pienamente convinto. Il suo pensiero è esplicitato nei complessi dialoghi esistenziali-filofofici, in flashback, con Alfred, personaggio non presente nel racconto ma funzionalmente ispitato ad Adrian Leverkuhn del Doctor Faustus.
Visconti crea una summa dell’opera di Mann, ne chiarisce le tematiche decadenti conferendo all’immagine un ruolo narrativo. Il protagonista, scrittore nel testo, qui musicista, ha basato il proprio percorso su una visione apollinea dell’estetica e dell’etica. Nietzsche permea questa pellicola (mi è sempre parso, a dirla tutta, una fonte primaria per Visconti). Questo è evidente quanto inevitabile: Aschenbach guarda al modello greco antico, ad una bellezza che è canone, ad una produzione artistica che esemplifica dell’autore. Per questo, nel suo passato, c’è una purezza che per lui fa rima con rigore anche e soprattutto morale. Una moglie graziosa e devota, una figlia, l’amore, il lavoro, il successo: nello scritto concentrato nel secondo capitolo, nel film ricordi che emergono in flash visivi.
L’incipit sia letterario che cinematografico è però posteriore, e narra di un Gustav invecchiato in un momento cruciale della propria vita: “Impulso alla fuga, era, ed egli se lo confessò, anelito verso cose nuove e lontane, desiderio smanioso di liberazione, di sgravio e d’oblio – fuga dall’opera, dal luogo giornaliero di servizio rigido, freddo benchè appassionato. Lo amava, è vero, e quasi amava già anche la lotta snervante quotidianamente rinnovata fra la sua volontà fiera e tenace …” e ancora “Egli cercava qualcosa di esotico, di avulso dalla vita abituale: ma doveva essere un luogo dove si arrivasse facilmente” (Thomas Mann da”La morte a Venezia”).
In evidente stato di prostrazione fisica e mentale, piombato in una crisi personale e creativa, Gustav si reca a Venezia. E’ in campo lungo che si apre il film: sul traghetto, poi in gondola, l’immagine si restringe sul protagonista che scruta il paesaggio lagunare di una bellezza triste, magnifica e squallida insieme. In questa Venezia crepuscolare e malata, nulla vi è della bellezza apollinea, rigorosa, ideale non sensoriale che Aschenbach ha inseguito e sostenuto per una vita intera. Arriva dunque all’Hotel de Bains, al Lido. Sono sequenze lunghe quelle che raccontano della sua permanenza iniziale. La narrazione è in immagini e musica: i passaggi dai vari campi , soprattutto medi, ed i piani (talvolta primi sul protagonista, ad esprimere pensieri e sentimenti) sono lenti e morbidi. La hall, la sala da pranzo, la spiaggia grigia con la sabbia fine, il mare calmo quasi metallico. Subito lo sguardo di Gustav si posa su di un: “… ragazzo … di una bellezza perfetta” (Thomas Mann da “La morte a Venezia”). Tadzio, un giovane polacco in vacanza con famiglia ed amici, rappresenta quella bellezza divina che “mena kl’artista allo spirito”.
Il musicista è rapito: in sospeso fra una venerazione distante e teorica ed un desiderio sensuale. E’ la rivelazione del dionisiaco: Gustav si ritrova smaniosamente colpevole di una attrazione inconfessabile che scompiglia il suo passato e le convinzioni presenti. Non vi è mai in lui un moto che non sia più che corretto nei confronti del ragazzo.: la sua passione interiore, bruciante, incomprensibile. L’estetica ha cancellato l’etica, come l’onda i segni sul bagnasciuga: “la bellezza ci può trafiggere come un dolore” (Thomas Mann da “La morte a Venezia”). Un maldestro tentativo di fuga alle proprie pulsioni viene casualmente bloccato ad un inconveniente pratico (lo smarrimento delle valigie). Il protagonista ne trae una soddisfazione dilagante:è riuscito a scusare il proprio desiderio di permanenza (solo per Tadzio) dietro una motivazione moralmente accettabile (non se ne andrà fino a che i bagagli non gli saranno restituiti). Nel frattempo, in città si sta diffondendo il colera, che, nella calura e nelle acque stagnanti, trova terreno fertile. Le autorità minimizzano ma la gravità della situazione è sotto gli occhi di tutti. Di tutti coloro che vogliono vedere. Gustav, non è fra quelli, accecato dalla bellezza del ragazzo non pensa ad altro: le segue per i canali, lo scruta mentre gioca nella sabbia, mangia, ride, suona. Addirittura, in un gesto di vanità estrema, si fa tingere i capelli nel tentativo di apparire più giovane e piacente. Le giornate corrono veloci: i pomeriggio al mare p in centro, le sere all’ hotel (sì, i musici sono certamente ambasciatori di morte), nella fremente esaltazione, nel dubbio della malattia. Fino a che Gustav, recatosi in banca, riesce ad ottenere la conferma alle proprie ed altro paure: l’epidemia dilaga. Sconvolto informa la famiglia polacca, nel tentativo di salvare Tadzio, di preservarlo nella sua immortale beltà. Oramai, di opiti all’hotel de Bains ne sono rimasti ben pochi. Il musicista è fra quelli, incapace di distaccarsi dalla visione estatica giornaliera del ragazzo. Sarà la sua condanna, naturalmente, e sulla spiaggia quasi deserta, stremato, egli contempla Tadzio inondato di luce, un miraggio di giovinezza che nell’ultimo anelito di vita parrà a Gustav di poter afferrare, seguire.
Non “La morte a Venezia” vuole raccontarci Visconti. Gustav è solo l’emblema di un mondo intellettuale in agonia. La bellezza canonica antica non è più. Uccisa da un nuovo sguardo, senza nessuna purezza (tematica questa che torna spesso nella pellicola). Un fascino decadente, senza morale, l’ha rimpiazzata. Esattamente come un mondo secolare (l’impero asburgico, gli equilibri internazionali, la supremazia europea) saraà spazzato via di lì a poco, precipitato nell’orrore della prima Guerra Mondiale e nei totalitarismi poi. Allo spettatore, altro non è dato sapersi: il film, come il racconto chiude con la morte, filosofica, letteraria storica, musicale ed umana. Il protagonista, spettro di cò che è stato e non potrà mai più essere, in qualche modo subisce una “punizione” per la propria inevitabile trasgressione. Trascinato ed abbandonato nell’abisso dei sensi. Perché “la più nobile specie di bellezza è quella che non tracina ad un tratto, che non scatena assalti tempestosi ed inebrianti (una tale bellezza suscita facilmente nausea) ma che si insinua lentamente, che quasi inavvertitamente si porta via con sé e che un giorno ci si ritrova davanti in sogno, ma che alla fine, dopo aver a lungo con modestia giaciuto nel nostro cuore, si impossessa completamente di noi e ci riempie gli occhi di lacrime e il cuore di nostalgia” (Friedrich Nietzsche da “Umano troppo umano”). Ed il giovane Tadzio è al tempo stesso simbolo di una bellezza trascendentale, morale, assoluta ed elemento destabilizzante dell’ordine costituito: angelo tentatore, tra purezza e languida malizia.
A mio parere, non è questo uno dei lavori migliori di Visconti. Fotografia e soprattutto montaggio paiono un po’ sorpassati, così bruschi e composti. La regia colpisce, questo è certo. Nulla è lasciato al caso: uno straordinario Bogarde, espressivo e contenuto; dialoghi tanto scarni quanto pregnanti; ambientazione e costumi sontuosi.
Una analisi più strutturata merita la musica. Perché essa è qui centrale, nei suoi significati più reconditi. Certo Gustav Mahler. A cui Aschenbach è sia letterariamente che cinematograficamente ispirato. Mahler e la sua logica ambigua. Mahler e le sue orchestrazioni ardue, molteplici, complicate. Dove la forma a tratti è essenza della sostanza. Pienamente decadente, le sue sinfonie accompagnano tutto il film. Eppure, per alcune delle scene più significative, vengono scelti altri autori, ed io credo che non ci sia, in questo, solo volontà estetica. E’ la celeberrima “Per Elisa” che Tadzio accenna al pianoforte in uno dei primi incontri di sguardi con Gustav: è l’irrompere della passione, della bellezza perfetta (Beethoven) ma nello stesso tempo sconvolgente. Non a caso, è ancora questo il tema che accompagna il flashback sull’incontro sessuale nella casa di appuntamenti: la perdita del controllo, il cedimento ai sensi, l’amoralità, il dionisiaco. E poi Musorgskij, la sua ninna nanna, ad accompagnare la dipartita del protagonista. Musorgskij: il tormento e l’inquietudine dell’uomo romantico. Contraddizione sconfitta attraverso nevrosi, estasi, innovazione. Musica narrati. Raffinatissima.
Forse non uno dei lavori migliori di Visconti. Certamente, uno splendido film
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