Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
Vedi Tadzio e poi muori; la bella morte; vivere e morire a Venezia. (La) Morte a Venezia, da Thomas Mann, è tra le opere tarde di Luchino Visconti la più eccentrica. Premetto che trovo le sue ultime due opere post ictus, quelle maggiormente compiute, insieme alla prima regia. Visconti, dopo “Il Gattopardo”, non trova più la quadra cinematografica, fino al prolisso e tedioso “Ludwig”. Dicevo che “Morte a Venezia” non è personalmente una summa, però ha diversi elementi che lo rendono affascinante.
1910. Gustav Aschenbach è un musicista tedesco che si ritira a Venezia per riposarsi da una vita sentimentale funestata da un lutto, da una performance contestata, da seri problemi di cuore. Il suo passato viene riproposto in flashback incastonati in una narrazione descrittiva dell’ultima estate dell’uomo. Verrà la morte e avrà gli occhi di Tadzio, altro titolo alternativo ad assegnare a questa infatuazione fatale per il maturo musicista al giovinetto efebico, ospite con i familiari nello stesso albergo.
La narrazione si fa soggettiva: Gustav osserva, spia, insegue, ascolta i dialoghi, peraltro ridotti all’osso per tutto il film, in cui fa capolino la bellezza sublime inseguita e mancata in musica (come intuiamo dai dialoghi concitati con l’amico Alfred) e forse in una vita spezzata dalla morte di una figlioletta e una omosessualità non dichiarata. Probabilmente non necessaria perché Tadzio rappresenta semplicemente la morte. Una bellezza angelicata da ammirare e contemplare fino a chiudere gli occhi per sempre. Per presentarsi al definitivo appuntamento/innamoramento deve imbellettarsi (come nella tradizione giapponese il rito della deposizione visto in Departures). Da un coiffeur persuasivo (il bravo Franco Fabrizi) si ringiovanisce per assistere all’ultimo spettacolo della vita, in spiaggia su una sdraio (ripresa in campo lungo, scena espressiva e bellissima). In controcampo e controluce lui, Tadzio, la bella morte.
Credo che sia questo il significato dell’opera trasfigurata da Visconti, nessuna suggestione autobiografica in cui Gustav è il regista e Tadzio lo scalmanato Helmut Berger. Il colera che divampa nella città lagunare è l’altro elemento cupo e metaforico: epidemia tenuta nascosta il più a lungo possibile, per esempio, dal direttore dell’albergo falsamente ossequioso del sempre grande Romolo Valli. Il disinfettante spruzzato e presente nell’aire serve a nascondere l’odore della morte che avanza silenziosa. Altra suggestione decadente che fa il paio con gli assunti dimostrati sopra.
Impianto tecnico di gran livello tra cui De Santis, Mastroianni, Tosi; idem artistico: Silvana Mangano, Nora Ricci e il protagonista assoluto Dirk Bogarde.
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