Regia di Marco Pozzi vedi scheda film
Buon lavoro del regista Pozzi. Tema attuale, film efficace
Sara, è una quindicenne, apparentemente tranquilla. Figlia di un’oculista e di una gallerista, possiede anche un cane. Diligente a scuola, ha due ottime amiche tra le compagne, anche i rapporti con i genitori sembrano sereni. Tuttavia, la ragazza coltiva un doloroso segreto, sta scivolando lentamente nell’anoressia: si ingurgita compulsivamente di cibo, che poi vomita puntualmente; va avanti a digiuni forzati, corse forsennate nel parco, spinte fino allo sfinimento, pranzi e cene svuotati di nascosto nei bidoni dell'immondizia o ceduti al cane, che infatti ingrassa smodatamente. Frequenta clandestinamente la sua “camera dei segreti”, una stanza ricavata in un deposito, in cui Sara può stare in disparte, senza dover dar conto a nessuno di ciò che fa, intanto dimagrisce seguendo le regole di un allucinante "decalogo" pescato sul web, per raggiungere il "38 peso ideale”, ma per chi? Nessuno sembra accorgersi di niente, né il padre Enrico alias Gianmarco Tognazzi nè Anna la madre, Sonia Bergamasco, e nemmeno Clara e Martina, le amiche del cuore, finché uno svenimento improvviso, svela la sua reale condizione. Ma aiutarla, a questo punto, è molto difficile, visto il muro impenetrabile dietro cui la ragazza si è barricata. Opera del regista milanese Marco Pozzi, segue la storia di un'adolescente malata, nel suo quotidiano doloroso, lasciando che siano le immagini a parlare. La Mdp, tampina la protagonista, lasciandoci entrare nella sua vita, passando dai momenti sociali ,a quelli intimi, più cupi; con i bigliettini su cui giorno dopo giorno, riporta il suo peso, il lenzuolo su cui disegna la sua sagoma che si assottiglia sempre più, le confessioni notturne alla webcam, nei momenti in cui Sara affida alle pagine di un blog, le proprie paturnie legate al suo aspetto.
La ragazza, si muove nelle strade di una Milano indifferente, anonima e negli interni del suo appartamento dall'algido “design”, con lunghi corridoi e luci fredde, con tanto colore bianco: « non rassicurante, ma nemmeno preoccupante, è il colore dell’anaffettività, il colore del vuoto”, che evoca un senso di disorientamento, quasi impercettibile ma costante; scenario ideale per il racconto di una sofferenza silenziosa, in cui chi dovrebbe capire, non riesce a farlo, distratto dalle proprie ambasce e indurito da una routine monotona, salvo poi sfogare la propria frustrazione con rimproveri inutili e falsi :"credevi che non ci fossimo accorti di niente?" » la sceneggiatura è sobria e non cede al patetismo, evitando qualsiasi cedimento enfatico; prevalgono gli sguardi che non si traducono in dialoghi aperti, ma che restano contenuti riduttivamente nella consuetudine: Anna che osserva il marito attraverso una vetrata, mentre lui suona il pianoforte, Enrico che è piuttosto assente, troppo preso dal suo lavoro; ognuno indaffarato a vivere la propria vita.
Il regista non vuole esprimere giudizi o impartire lezioni, ma solo constatare in maniera non compiaciuta i segni della malattia e il suo contesto umano, emotivo e relazionale, raccontandoci, in modo efficace, di una patologia psichiatrica di elevata gravità, che è insensato ignorare: «è un problema sociale, e il fatto che non si riesca a parlarne, nonostante le morti significa che c’è un tabù, una resistenza, dovuta al fatto che è il nostro modus vivendi che viene messo in discussione».
Pozzi ha evitato sapientemente i luoghi comuni, le facili conclusioni, le esternazioni plateali, girando un film essenziale e diligente.
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