Regia di Jafar Panahi, Mojtaba Mirtahmas vedi scheda film
Jafar Panahi ci racconta il film che non ha potuto girare. Il suo amico Mirtahmasb Mojtaba lo riprende, mentre, nella sua abitazione di Teheran, aspetta l’esito del ricorso in appello relativo alla sentenza che, nel dicembre del 2010, lo ha condannato a sei anni di prigione ed al divieto, per vent’anni, di girare film, di scrivere sceneggiature, di rilasciare interviste e di uscire dal Paese. Jafar è solo, nel suo appartamento, avendo come unica compagna l’iguana Igi. Il suo avvocato lo chiama al telefono. Sua moglie e sua cognata sono andate in visita dalla madre, per consegnarle il regalo di Capodanno. Siamo nel marzo del 2011, alla televisione scorrono le immagini dello tsunami del Giappone, mentre fuori, per le strade, riecheggiano i fragori del mercoledì dei fuochi, un’antica festa persiana che il governo vorrebbe abolire, perché contraria ai principi della rivoluzione islamica. Panahi ci legge il copione che gli è stato proibito di mettere in scena. Prima di recitare il testo, cerca di fornire un aiuto alla nostra immaginazione, fingendo che il grande tappeto del soggiorno sia la casa in cui si svolge la storia. Usa il nastro adesivo per tracciare il perimetro dei muri, la larghezza della porta, il bordo dei gradini. Una poltroncina rappresenta la finestra, un cuscino indica la posizione del letto. Quel luogo è la prigione di Maryam, una ragazza di Ishafan, appartenente ad una famiglia di umili origini e fortemente attaccata alla tradizione. Le viene impedito di uscire, perché non si rechi nella capitale, a frequentare il corso universitario di storia dell'arte per il quale aveva superato l’esame di ammissione. Quella giovane donna è tenuta sotto chiave, dietro le tapparelle abbassate, e solo la nonna paterna, di tanto in tanto, quando gli acciacchi dell’età glielo consentono, la va a trovare, per portarle il necessario a sopravvivere, in quella buia solitudine. Il silenzio dell’isolamento è rotto soltanto dallo squillo del telefono, che preannuncia l’ennesima chiamata muta. E, intanto, una corda pende dal soffitto, e lì sotto, al centro della stanza, c’è una sedia. Con dentro Maryam, che guarda pensosa verso l’alto. A questo punto la voce narrante si interrompe. Panahi si blocca, come per un improvviso nodo in gola. Il discorso abbandona, piano piano, la nostalgia del recente passato, che coincide con un presente sospeso, per spostarsi sui ricordi concreti, a cui la sua creatività ha potuto dare la forma di opere filmate. Ritornando su alcune sequenze di Oro Rosso, Lo specchio e Il cerchio, Panahi ci impartisce una illuminante lezione di cinema. Che non è mai così complesso e imprevedibile come quando si impregna della vita vera, dei gesti spontanei degli attori non professionisti, che sfuggono al controllo della regia, e sono di fatto intraducibili in prescrizioni verbali. L’umanità è energia vitale che esce istintivamente dai ranghi; è la verità che sgorga facendosi ribellione, forza naturale che si oppone ad ogni artificio, politico o intellettuale. È lo specchio della realtà che diventa testimonianza poetica, anche quando ritrae la sua impossibilità ad esprimersi. Un autore interpreta se stesso nel ruolo di colui che è costretto a tacere, e quindi parla attraverso i sogni, le ipotesi, le speranze che prolungano, oltre i limiti imposti dal regime, i progetti naufragati nella mancanza di libertà. L’occhio del suo obiettivo non può uscire dalle pareti domestiche: ma con il cellulare può comunque registrare i piccoli eventi casuali che lo raggiungono dal mondo circostante. L’insopportabile cane Micky che la vicina gli vorrebbe temporaneamente affidare. Un commesso che gli consegna un pasto a domicilio. Un amico che gli telefona, dicendo di essere stato fermato dalla polizia, che ha ispezionato la videocamera che aveva con sé. Il giovane incontrato sul pianerottolo, che va in giro per il condominio a ritirare i sacchi dell’immondizia; non è quello il suo lavoro, sta solo sostituendo suo cognato, il vero portiere dello stabile, la cui moglie sta per partorire. Tutto è degno di far parte di questo film. Di cui Jafar Panahi non è il regista. E che tra l'altro, sia ben chiaro, non è un film.
Questo film, inutile aggiungerlo, è stato realizzato clandestinamente, ed altrettanto clandestinamente ha attraversato la frontiera (si dice fosse salvato in un pendrive nascosto in un dolce). Pochi giorni dopo il suo arrivo in Europa, è stato presentato, a sorpresa, al Festival di Cannes del 2011.
Il film descritto da Jafar Panahi è tratto da un breve racconto di Cechov. Il regista iraniano Kambuzia Partovi ha collaborato alla sceneggiatura.
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