Regia di Jacques Demy vedi scheda film
E’ un breve, ma a mio avviso interessante film girato da Demy nel 1957.
Le bel indifférent, come si può ben comprendere dal titolo, è tratto dal testo teatrale di Jean Cocteau (ne mantiene più o meno anche la durata temporale di circa 30 minuti) che il regista “mette in scena” (è proprio il caso di dirlo) rispettandone integralmente le modalità (senza nemmeno troppo distaccarsi da quelle di una rappresentazione sul palcoscenico, come vedremo in seguito), ma che alla fine si differenzia notevolmente da essa (e in questo sta la straordinaria importanza dell’opera) perchè utilizza la parola solo come base (non come mero pretesto però, e anche questo risulta importante) per un esemplare “esercizio di stile”, che gli consente di operare (e di sperimentare) sulla realizzazione visiva soprattutto lavorando sui colori e i contrasti, tutti elementi strettamente legati insieme alla fotografia, a quello che possiamo definire “lo specifico filmico” per eccellenza.
Un’opera dunque per molti versi indispensabile per conoscere e approfondire la formazione artistica in divenire di un regista tutt’altro che conforme, principalmente per comprendere meglio il suo percorso di “avvicinamento progressivo” ai successivi lungometraggi che lo porteranno poi a realizzare nel 1964, l’ottimo Les Parapluies de Cherbourg, favola malinconica e affascinante ambientata in un mondo rivisto e corretto dalla cinefilia dove anche la vita si deve inchinare alle leggi dell’arte (Prédal) in cui Demy riproduce l’autentica Cherbourg, ma ripresa e “ricolorata” con straordinario gusto pittorico, per accompagnare ed esaltare i vari momenti della storia e dei sentimenti espressi (e il parallelo fra le due opere sotto questo profilo non è assolutamente causale).
Infatti, Le bel indifférent (che con la Voix Humaine sempre di Cocteau rappresenta un eccellente dittico tutto al femminile sulla travolgente ossessione dell’amore non corrisposto e sulla sofferenza dell’abbandono) in pratica il monologo di una donna “recitato” con i toni esasperati della amplificazione drammaticizzata del “pezzo di bravura” attoriale alla presenza (solo “funzionale” come lo era la cornetta del telefono nell’altra piece) del giovane uomo “indifferente”, un oggetto quasi “ornamentale”, ma causa e conseguenza diretta con il suo non ascoltare e restare estraneo all’azione, del sentimento e della disperazione espressi attraverso l’esondante dialettica delle parole, credo che possa essere valutato sotto molti aspetti nella realizzazione di Demy, come la necessaria premessa a quel successivo film indubbiamente più compiuto e articolato, poiché ne anticipa (e condivide) il modo tutto speciale di vedere e di rappresentare la realtà, tanto che lo si può considerare a tutti gli effetti una specie di prova generale perfettamente riuscita che si estrinseca essenzialmente attraverso lo speciale utilizzo delle colorazioni ma che si discosta poi anche se in via più subordinata, per una differente modalità recitativa e per un certo tipo di musica qui in forma meno “narrativa”.
In teoria dunque “teatro” filmato con accademico rigore, tanto che all’inizio si alza addirittura il sipario su una scena che si mostra in tutto e per tutto, arredi compresi, simile a quella che potrebbe essere stata ricostruita su un palcoscenico, ma giocando sul forte contrasto delle tinte. Le pareti sono rosse, ma di un rosso vermiglio, aggressivo, vivido e carnale come quello del sangue che crea una forte discordanza (anche sensoriale) con l’accecante bianco del letto “centrale alla visione”, sul quale giace accasciata e quasi rannicchiata, una donna interamente vestita di nero che si percepisce per questo quasi in gramaglie.
La contrapposizione già fortemente stridente dei colori, si accentua ulteriormente quando nella stanza entra il ragazzo (l’oggetto del desiderio), ma passa indifferente come se fosse disabitata, per arrivare direttamente al bagno, che si accende di una luce violenta, quasi abbagliante fortemente innaturale: il biancore abbacinante dell’impatto, appena mitigato da qualche chiara maiolica che lo stempera un poco, sembra avvolgere e quasi risucchiare l’uomo in un'altra dimensione, lasciando sempre più sola quella donna distesa sul letto rinchiusa nel suo mondo e nella sua sofferenza.
Poi l’uomo si sdraierà a sua volta sul letto, e vi resterà senza proferire parola per tutta la durata della rappresentazione estraneo ed assente, mentre la donna continuerà ad agitarsi prigioniera della sua gabbia di pulsioni sentimentali non corrisposte e così tanto platealmente disattese.
Una musica fortemente connotata e una recitazione démodé (perfettamente in sintonia con la verbosità ampollosa e poetica della piece) completano l’opera di soffocamento del personaggio: gli elementi della messa in scena risultano talmente sovraccarichi di intenzioni da risultare addirittura esagerati, ma servono invece a rendere il tutto molto vicino a una “artefatta” riproduzione un po’ espressionista del sentimento, mi verrebbe da dire (anche se l’espressionismo inteso come corrente artistica, non ha poi all’atto pratico davvero nulla da spartire con questa esercitazione tutta formale che si muove decisamente in altre direzioni e mira semplicemente ad esasperare i concetti con lo scopo di ridurre la donna - o meglio “quella” donna - a una specie di marionetta urlante, un po’ meccanica e artificiosa, che grida un dolore profondo e “sovraesposto” che però non riesce a commuove nessuno, nemmeno l’uomo che ne è la causa più diretta e immediata).
Ecco perciò che proprio la peculiare particolarità di questa insolita “mise en scène” diventa all’atto pratico l’unico vero elemento capace davvero di esprimere e veicolare il posizionamento e il giudizio (anche morale) del regista sui personaggi (e rispetto ad essi). Il contrasto colore-situazione che ritroveremo poi anche nei Parapluies, è qui, come già detto, la specifica modalità, o meglio il mezzo più congruo, per una apparente identificazione empatica e “tradizionalmente” coinvolgente, con ciò che esprime il testo, ma Demy esacerbandone i toni e l’espressione visiva della scena, finisce per rovesciare il risultato ottenendo giustamente quella necessaria reazione di straniamento indispensabile per distanziarsi dal melodramma.
Come esercitazione di stile, la ricerca formale di Le bel indifférent si può quindi considerare ammirevole e importantissima anche in funzione dell’evoluzione di un linguaggio raffinato e di rara dolcezza introspettiva che troverà matura espressione nei suoi lungometraggi più riusciti e convincenti (soprattutto i Parapluies ma anche Les demoiselles de Rochefort).
Scenograficamente essenziale, la forza delle immagini è dunque tutta affidata alle luci, ai colori e alla capacità di raccontare le cose attraverso adeguate riprese fotografiche che sono davvero di straordinaria pregnanza, anche perché riescono a “creare “movimento in uno spazio chiuso e un po’ claustrofobico come quello della camera da letto che contiene interamente l’azione. Tutto affidato all’accentuata forzatura drammatica della recitazione, il personaggio di questa donna “senza nome” è realizzato, in perfetta sintonia con il disegno non solo registico, ma anche con quello del testo d’origine, da una bravissima e “datata” Jeanne Allard che anima la scena con la sua esagitata performance. Giustamente decorativa invece, ma assolutamente funzionale al risultato, la presenza solo fisica di Angelo Bellini, il bell’indifferente che ascolta senza interloquire.
Peccato che una “piccola” opera (ma tutt’altro che secondaria) come questa, abbia circolato veramente poco e male qui da noi in Italia, dove è passata solo nelle sezioni collaterali di qualche festival e che a mio modesto parere sarebbe invece assolutamente da recuperare.
Per inciso, segnalo che la visione alla quale ho assistito, era seguita dal meno interessante, ma analogamente esemplare documentario Ars che Demy aveva diretto nel 1959.
In questo caso è preponderante il commento parlato (e avendolo visto in edizione originale non sottotitolata, forse non tutto mi è risultato completamente chiaro, il che rende estremamente più difficoltoso il giudizio). Quello che mi è sembrato comunque di rilevare, è che nemmeno in questo caso, pur nella rappresentazione “documentaria” di un percorso di vita, la realizzazione possa essere definita all’atto pratico pedissequa e conforme: la parte visiva che accompagna il parlato non si mostra infatti nemmeno qui come semplice elemento illustrativo delle parole. I due piani si articolano semmai in parallelo, non certamente all’unisono, e se il commento ci racconta essenzialmente la vita del curato di Ars a cui è appunto dedicato il cortometraggio, le immagini, elaboratissime e insolite per un documentario, ci mostrano invece prioritariamente i luoghi della storia, con una freddezza descrittiva quasi entomatologica che ci colloca quasi in un’altra dimensione, tanto che alla fine ne esce soprattutto fuori il vivido ritratto di un paese e della sua gente che mi sembra sopravanzi di gran lunga il didascalismo descrittivo più accademico delle giornate di un parroco di provincia e dei suoi rapporti con i parrocchiani privilegiato invece dalle parole.
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