Regia di Alain Resnais vedi scheda film
Le Chant du Styrème diretto da Resnais nel 1958, in cinemascope e a colori, è l’ultimo cortometraggio che il regista ha realizzato prima di passare al cinema di finzione, ed è straordinario e stupefacente ancora oggi proprio per come è stato organizzato e per le chiare indicazioni che offre in relazione ai successivi sviluppo artistici del suo autore.
Quello che qui viene “messo in scena” infatti, è un documentario scientifico su un prodotto chimico (lo Styrème del titolo ovviamente) e quindi un film che potrebbe “semplicemente” esaurirsi nel seguirne il processo di lavorazione dalla creazione in laboratorio di una sostanza plastica fino alle sue applicazioni pratiche (obiettivo che non elude, e che rispetta integralmente) ma che la sorprendente abilità anche “sperimentale” del suo autore, trasforma in qualcosa di molto più stimolate ed inventivo, che raggiunge la dimensione e il senso di un vero e proprio “poema delle immagini”. Per Resnais, infatti parlare di un prodotto “asettico” come questo, diventa l’occasione e il mezzo per “lavorare” con la macchina da presa utilizzandola quasi come fa il pittore col pennello sulla tela, e formare così sullo schermo una sorprendente sequenza di composizioni astratte in cui ogni oggetto, ogni “particolare” selezionato e mostrato, è visto e rappresentato nella sua esteriorità, scelto per il suo colore, la sua dimensione.
Le Chant du Styrème è dunque soprattutto un susseguirsi ininterrotto di splendide immagini da centellinare con lo sguardo per metterle lentamente a fuoco nel cervello, un pò come accadrà poi all’inizio di Hiroshima mon amour: forme apparentemente “indefinibili”, che piano piano si fanno più chiare fino a divenire intelligibili, e che qui permettono allo spettatore di seguire persino senza annoiarsi, tutto il processo anche “meccanico” di lavorazione industriale (che, non dimentichiamolo, è e rimane il filo conduttore del film) come fosse una storia che offre certamente l’interesse primario di un indubbio supporto conoscitivo di una metodologia che sta alla base della creazione di un prodotto di sintesi, ma ovviamente non ha questa volta solo una funzione didattica, perché in termini di emozioni restituisce e rimanda davvero molto di più.
Insomma dopo aver visto Le Chant du Styrème, possiamo dire di sapere davvero tutto sullo Styrème, “aridi” processi industriali compresi, ma abbiamo avuto il piacere di apprenderlo seguendo il poetico percorso resnaniano che ci ha catapultato dentro una magnifica, quasi “magica” fantasmagoria di immagini piene di promesse.
Questo slittamento della scrittura filmica verso l’astratto, questa progressiva sottrazione della referenzialità dell’immagine verso ciò che “realmente” rappresenta quello che ci viene descritto, anticipa anche molto di Marienbad, e diventa un vero e proprio saggio di bravura, e soprattutto un esercizio di stile “preparatorio” giustamente osannato dai “Cahiers du Cinéma” su come si può destrutturate lo spazio ed il tempo nel suo ardito provare a raccontare a ritroso un alienante processo di industrializzazione tecnologica
Come puntualmente ha osservato Paolo Bertetto nel volume del “Castoro cinema” interamente dedicato al regista, è indubbio infatti che qui l’itinerario all’indietro del documentario di Resnais costituisce una sorta di ritorno alle origini, di rovesciamento del tempo, ma diventa anche lo schema strutturale perfettamente messo a punto e poi magistralmente amplificato in seguito, che rende possibile ridurre a flusso astraente i materiali filmici di cui si dispone, e questo indipendentemente dalla loro precipua natura e funzione, fino a piegarli ai personali “bisogni” espressivi legati alla propria ispirazione artistica.
Il discorso che il regista fa con questo documentario, sembra infatti volersi sviluppare in due direzioni (e prospettive) ben distinte, ma assolutamente complementari fra loro: se - come abbiamo già visto - da una parte è la semplice descrizione di un processo produttivo (sia pure “raccontato” e riprodotto in elaborate immagini prettamente “cinematografiche”), dall’altra ha l’ambiziosa pretesa (perfettamente onorata) di farlo attraverso una vera e propria “traslazione” artistica della realtà fantastica di un mondo in gestazione: mondo segreto, sotterraneo, dinamico, dove si elaborano sintesi meravigliose e significative: mondo in cui la popolazione delle macchine, con la regolarità proliferante delle polimerizzazioni, s’impone – sino a cancellarla – alla popolazione degli uomini (Bertetto). E in effetti sembra davvero che l’intento prioritario del regista sia proprio quello di utilizzare il materiale di formulazione chimica da “documentare” per riprodurre invece (e rappresentare sullo schermo), una nuova e insolita realtà filmica che imponga alle immagini un ritmo simile a quello della musica (una modalità che si ritroverà poi proprio nei “movimenti” sinfonici della narrazione a incastri di Hiroshima) basato su una struttura polifonica che porta anche a una “speciale” integrazione del visivo con il sonoro, qui resa ancor più evidente da un commento molto elaborato in versi alessandrini (a sua volta e “a suo modo” una specie di “cantata informativa”) appositamente scritto da Queineau: pensavo a una poesia didattica di Boileau, di Malerbe, e mi sembrava che un testo in versi sarebbe stato più efficace, anche pedagogicamente parlando, avrebbe aiutato a rendere meno tecnologiche e più invitanti le immagini, e poi sentivo confusamente che esisteva un rapporto tra l’alessandrino e il cinemascope che stimolava fortemente la mia fantasia e che volevo assolutamente sperimetare e mettere a confronto (Alain Resnais).
Nel caso specifico si trattava infatti di mettere a punto un irrinunciabile commento parlato dichiaratamente (e necessariamente) esplicativo, ma che doveva risultare così “inventato” da sembrare quasi un’astrazione, e quindi assolutamente compatibile con l’orchestrazione polifonica dell’insieme. Questo non doveva escludeva ovviamente il tradizionale impiego di una voce recitante, ma da inserire “dinamicamente” nel contesto, e di conseguenza assimilabile in toto con tutti gli altri elementi dell’insieme con i quali doveva essere assolutamente omogenea per rendere ancor più evidenti le finalità astratto-musicali di un progetto così ambizioso e propositivo. I versi alessandrini di Queineau (che per lo meno nella traduzione italiana risultano però a tratti eccessivamente “classicistici”) in ogni caso contribuiscono “complessivamente” in modo egregio alla loro funzione anche “sperimentale” tesa a produrre anche con il parlato, modalità narrative capaci di rinnovare e in parte a stravolgere, la struttura portante del cinema e di imporre al suo interno, nuovi linguaggi che prenderanno si lì a poco tempo, una forma concreta proprio con Hiroshima e Mariemband, aprendo davvero nuove affascinanti prospettive per la settima arte e per tutto ciò che verrà realizzato in divenire al suo interno.
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