Regia di Brian Welsh vedi scheda film
La guerra non rende più forti, ma solo più consapevoli, oppure più cattivi. La soldatessa britannica Suzy Jackson, reduce dalla missione in Iraq, dal campo di battaglia ha portato con sé l’indelebile e profonda impronta dell’orrore. Suo marito, invece, anch’egli militare, combattendo ha accresciuto la propria rabbia interiore, trovando nel nemico imposto per contratto un nuovo pretesto per odiare. Il rientro nella società civile non è possibile per chi ha vissuto per mesi secondo la spietata logica della lotta senza quartiere, del pericolo sempre in agguato, che include la regola di colpire prima di essere colpiti. Uccidere per dovere o per necessità è il principio che ti segna per sempre, e che non è trasferibile nella quotidianità dell’Europa occidentale, lontano dai fragori dei feroci conflitti che insanguinano il Medio Oriente. Aver dovuto assistere a qualcosa che risulta incomprensibile ed inaccettabile scombina le certezze acquisite, aprendo, dentro al cuore, uno squarcio da cui continuano ad entrare, amplificati, gli echi di dolore di cui è pieno il mondo. Suzy ha l’animo scorticato dalla crudezza di una realtà disumanamente assassina, che ha consumato la rosea superficie dei sogni e il delicato velo delle illusioni. Non riesce più ad amare, né ad essere felice, e per questo non può più essere madre né moglie. Per lei la voce del bene è un flebile suono del passato, troppo debole per sovrastare il rimbombo della devastazione a cui ha partecipato, e di cui si sente colpevole. Suo marito Mark, per contro, proietta l’idea del male fuori da sé, concretizzandola nella demonizzazione dell’avversario, del musulmano, del diverso, di colui che nell’inferno iracheno, per definizione, rappresentava il bersaglio contro cui sparare. Ritornare alla normalità prevede una riconciliazione che, per entrambi, è un traguardo irraggiungibile: troppo grave è la rottura del patto che ognuno di loro aveva stipulato con la vita, un contratto in cui stava scritto chiaramente cosa fosse giusto o sbagliato, ed era fissato un limite tollerabile a ciò che poteva accadere. Quando l’accordo salta, le due parti si scoprono improvvisamente estranee: l’individuo si aliena dalla società ed è istintivamente portato a trasgredirne le leggi. Però il finale non è sempre lo stesso: c’è chi, senza rendersene conto, diventa un criminale, e chi, come Suzy, prende coscienza della propria improvvisa inettitudine e decide di tirarsi indietro. Brian Welsh dedica questa sua seconda opera da regista (la prima distribuita a livello nazionale) alle migliaia di militari, uomini e donne, che sono stati incarcerati nelle prigioni britanniche, dopo aver cercato di tornare alla vita civile. Nel “nostro nome” feriamo noi stessi e soprattutto quelli che per noi è facile e confortante celebrare come i nostri eroi: coloro che, esportando democrazia e libertà, finiscono per importare, dentro le loro case, un’inerte, o furiosa, forma di disperazione.
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