Regia di Oliver Hermanus vedi scheda film
La solitudine di un uomo è tutta scritta nel suo sguardo. I silenziosi primi piani del suo viso sono i ritratti delle sue emozioni segrete. François van der Heerden è titolare di un piccolo impianto per la lavorazione del legno, e vive in Sudafrica, in una zona di campagna lontana dalla capitale. Sua moglie si chiama Elena. Ma il nome del suo vero amore è Christian. È il figlio del suo “fratello” Willem, col quale ha condiviso le esperienze di una vita intera, compreso il servizio militare. Ed è anche il probabile prossimo fidanzato di sua figlia Anika. François non può dire a nessuno ciò che prova. Non lo rivela nemmeno a noi, almeno non a parole, e anche quando gli capita l’occasione, non è in grado di dichiararsi verbalmente al diretto interessato. Il sottinteso è il paravento dietro al quale si nasconde, come se, tacendo, la sua passione potesse davvero restare al riparo dal mondo, per crescere indisturbata o magari morire per mancanza di luce. L’ossessione, per essere vinta, forse deve essere aggirata ed aggredita alle spalle. È precisamente così che un tranquillo padre di famiglia diventa un traditore. Quando il suo “vizietto” smette di essere lo spunto per una trasgressione tra amici e comincia ad essere una questione seria, che davvero prende l’anima, l’unica salvezza è il sotterfugio, continuo e sistematico, che per François si traduce, di fatto, in una solitaria seconda vita. Quando non è costretto a fingere, davanti a parenti e conoscenti, quell’uomo diviene tutt’uno con la sua idea fissa, che lo spinge a sognare, desiderare, temere, e infine odiare. Poco a poco, quell’attrazione si condensa in una carica di energia trattenuta e compressa, che, prima di esplodere in violenza, è visibile, in lui, come un tensione che affastella le fibre nervose e scolpisce i tratti del volto. La sua figura imponente, massiccia e squadrata, segnata da connotati volitivi, è la statutaria incarnazione di una mascolinità classica, benché priva di grazia. È la virilità del condottiero, che però qui è plasmata dall’intensità di un sentimento tanto clandestino quanto imperioso, che nasce dal cuore ma è destinato a sfociare in una disperata esplosione di violenza. François sente montare, in sé, l’onda dell’aggressività, e ne conosce bene la ragione. Non è il sintomo di una malattia, come vorrebbe sentirsi dire dal medico, al quale si rivolge in cerca di aiuto, ma senza confessargli apertamente il suo problema. E intanto, in mancanza di altri sfoghi, cerca di curare il suo profondo disagio con l’alcool, il veleno di cui già una volta era stato schiavo. Si può soffrire per amore e diventare cattivi. Non è follia, è l’istinto che sgomita, per farsi strada attraverso le leggi della società. È rude e primitivo, come un’accetta usata per abbattere un albero, o una sega che scarnifica un’asse di legno. La natura si scava la strada con pensieri semplici (un telefonino comprato per amore) e con gesti puerili (una ripicca per gelosia contro la figlia), poi incontra resistenza e deflagra in perversione. In un contesto epico d’altri tempi, questo sarebbe stato il culmine dello spirito guerresco: una furia che distrugge o razzia ciò che non può conquistare. Invece qui, a scoppiare, è solo lo squallore di ciò che forse inizialmente era giusto e pulito, ma poi si è rovinato, rivoltandosi nel torbidume della menzogna e della disonestà. E sporcando irrimediabilmente la bellezza (skoonheid) ispiratrice da cui era scoccata, discreta, la scintilla di una favola proibita.
Questo film è stato il candidato sudafricano al premio Oscar 2012 per il migliore film straniero.
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