Regia di Robert Guédiguian vedi scheda film
Adoro Guédiguian. Ma forse sarebbe stato meglio dire: “odoro Guediguian”. Cioè, l’aria della sua città.
“La ville est tranquille”, “Marius et Jeannette”, ma ora che ci penso: è sempre lo stesso film ?
Marsiglia che non si vede mai, ma che lui immagina fumosamente così trita di luoghi comuni, sarà davvero la patria di Ariane Ascaride e co ? Il fatto è che quando non si ha una città che racconta le storie che ti servono, si prova sempre ad inventarle. E le si vuole collocare necessariamente nella cornice inappropriata.
Qualcuno dice che si può accostare Guédiguian a Loach: secondo me, voleva bestemmiare. E’ vero che l’autore inglese è fortemente sopravvalutato (dimostra, anziché mostrare), ma il francese gira lavori fuori tempo massimo: i suoi discorsi erano già completati negli anni ’90 ed oggi appaiono sorpassati. Accade spesso a tutti coloro che devono “trovare” una causa al proprio essere ribelli, ad imporsi sulla scena attraverso le maglie sociali, invece di pensare a raccontare. Ma qui, onestamente, Robert Guédiguian è inguardabile. Perché, riferendoci di essersi ispirato a “Les pauvres gens” di Victor Hugo, mette le mani avanti, nascondendosi dietro un titolo eccellente. E invece ci dà un’ennesima fiction di stampo televisivo condita di allusioni (la barchetta che scivola nelle strade cittadine è una metafora così elementare della deriva borghese che fa ridere, invece che pensare) che intitola “Le nevi del Kilimangiaro”, quasi uno come lui potesse permettersi di irridere Hemingway. Da molti anni, il cinema francese è scadente, di gran lunga peggiore di quello italiano: dialoghi scialbi, personaggi divisi in buoni (anziani, ovvio) e cattivi per forza (tutti i giovani, inclusi i figli della coppia protagonista, ma escluso la simpatica figurina del barman, presa a prestito da un vecchissimo Proietti televisivo), idee banali (il proletario che s’interroga sul suo essere diventato borghese), le contraddizioni di un finto disagio sociale (tanto, tutto s’aggiusta). Passiamo al film ? Intanto, cerchiamo di capire se c’era, il film. In questa telenovela, che a forza qualcuno vuole definire “fiaba”, provando a dare spiegazioni intellettuali che non ci sono (in fondo la storia è un pretesto per far lavorare la compagna del regista, la già citata Ascaride), si narra la vicenda del sindacalista Michel (Jean-Pierre Darrousin): finito, per sua scelta, nella lista degli operai che devono essere messi sotto cassa integrazione, estrae dal bussolotto il suo nome assieme a quello di altri suoi 19 compagni di lavoro al porto. Al disappunto (e al dolore) della perdita del posto, fa da contraltare la compagnia di amici e parenti che, al termine di una festa per il trentennale (??) della coppia, orribilmente filmata e lunga in modo nauseante (manco se ci volesse far capire che lui viene dal super8), regalano al sindacalista-operaio ed a sua moglie Marie Claire (Ascaride) un viaggio in Africa (!!) e soldi in contanti. Noioso, prolisso, con sequenze troppo lunghe (la scena di raccordo con Marie Claire che accudisce una vecchia donna che parla al telefono con il marito di calcio…), fino al momento della festa, la pellicola non regala nulla: personaggi poco interessanti, bla-bla sul senso o non senso della vita, siamo insomma dalle parti di un malinconico cinepanettone francese. Tuttavia, i soldi fanno gola ai delinquenti: la notte stessa due di essi irrompono in casa, legano e strattonano la coppia intenta a giocare a carte con gli amici di sempre (altro stereotipo: amici dall’infanzia….mah…), prelevano contanti e biglietti e si dileguano. Ma, complice un giornalino unico (della Marvel: “L’uomo ragno contro Electro” in francese), rubato la notte stessa, Michel scopre uno dei due malviventi: è un collega, con madre assente e che ha a che fare con due fratelli piccoli. Qui il film potrebbe prendere corpo, ma il regista va alla deriva: indeciso se comporre un noir tradizionale o un’indagine dell’anima, lascia prevalere il buonismo (infantile) sulla vicenda: dopo averlo fatto arrestare, l’operaio e la moglie proveranno a prendersi cura dei fratelli del giovane, rivelatosi non un malfattore, ma un disadattato.
La messa a punto della sceneggiatura va in frantumi: l’autore affretta le conclusioni, sbanda paurosamente:i ragazzini accolgono questa nuova coppia di genitori – sic ! – senza patemi, i figli li contestano, l’uomo-Michel ritrova il sorriso della moglie e mette a tacere la sua coscienza. Certo di aver fatto un capolavoro, Guediguian non ci risparmia nulla: persino il ballo simulato alla Moretti (che infatti distribuisce in Italia…) di Ascaride e Canto. Qualcuno provi a fermarlo….
ERRORI TECNICI
In un normale film, le azioni si susseguono in modo simultaneo. Qui, invece, Guediguian presenta il giovane proletario senza avercelo mostrato prima: lo spettatore non può empatizzare con lo stesso, né si può schierare con Michel. La scena dell’incontro tra i due (girata rozzamente, con due stacchi, mentre ne occorrevano almeno tre, se non si sceglie un piano sequenza), va anticipata, altrimenti, come succede, il giovane è un personaggio tinca. Lo spazio dato agli amici è eccessivo: nella rapina la donna ospite (Maryline Canto) resta sconvolta, rifiutando dopo la realtà. Ma non si spiega la sua guarigione.
ERRORI DI DIREZIONE
Gli attori sono pessimi: è noto che in Francia quasi nessuno voglia recitare con Ariane Ascaride (troppo invadente, pretende di dire la sua sempre), ma in tal caso l’attrice prova a rubare la scena a Jean-Pierre Darrousin: la sua incoerenza (mostrata nell’incontro con la figlia, il barman, la datrice di lavoro, madre dell’anziana che accudisce) è talmente evidente che siffatti dialoghi appaiono superflui, rendendo il film labile emotivamente. Inutili divagazioni. Lasciato senza guida, Darroussin (che è attore d’istinto, non di portamento), non brilla. L’evidente difficoltà di dirigere gli attori si manifesta compiutamente nella scena della spiaggia, allorché sono tutti muti, senza muoversi, e parlano solo in tre (mamma, figlia, genero). Tutte le scene corali sono inanimate (osservare i personaggi secondari), perciò fasulle.
STILE
Il cinema è l’arte dei primi piani: a giudicare da questo concetto, potremmo dunque asserire che Guediguian non fa più cinema. In realtà, il suo film migliore resta “Le passeggiate al Campo di Marte”: ciò dimostra che quando non è succube di una donna-attrice-tiranna, l’uomo sa muovere la macchina da presa. Peccato, però, che qui non lo dimostri. Si noti, tra l’altro, che il film è stato girato a più riprese: in alcune scene i personaggi principali hanno indosso abiti più pesanti delle persone che li circondano, sintomo di difficoltà economiche non compensate dalla pochezza della vicenda. Le dominanti cambiano spesso colore, pertanto si ipotizza un cattivo rapporto con la troupe tecnica. La musica è invadente ed inappropriata.
Sono solito chiudere con un appellativo il film giudicato. Eccolo: abominevole.
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