Regia di Pierre Schöller vedi scheda film
Non importa ciò che sei, o ciò che pensi. Perché l’unica cosa che conta è l’opinione che gli altri hanno di te. Tu sei un uomo di stato, e per il popolo vali solo per quella parte di verità che fai finta di rappresentare. In realtà, contrariamente a quanto vorresti far credere, le tue scelte non sono dettate da principi morali o ideologici. Tutto nasce, semplicemente, dalla necessità o dall’interesse. Nelle stanze dei bottoni i problemi si risolvono nel modo più adatto a creare il consenso, o a minimizzare il dissenso, intorno ad operazioni che poco hanno di nobile o di razionale. La privatizzazione delle ferrovie, nella Francia dei giorni nostri, è una questione spinosa con cui, in piena crisi economica ed occupazionale, deve fare i conti Bertrand Saint-Jean, il ministro dei trasporti. Il problema non è tanto trovare la formula più vantaggiosa per la nazione, quanto individuare la maniera più decorosa di “metterci la faccia”. Il servitore della causa pubblica è, più che altro, un uomo di spettacolo: un equilibrista nei giochi di potere che si svolgono all’interno del governo, ed un attore nei comizi, nelle interviste, negli incontri ufficiali. Un uomo solo, dietro la sua immagine, da cui dipende la sua sopravvivenza politica. Betrand ha bisogno di avere costantemente accanto Pauline, la sua fedele consigliera, che gli suggerisce, in ogni momento, le parole più opportune da usare. L’essenziale è sapere sempre cosa dire e cosa dimostrare di voler fare. Proclami ed intenzioni sono la pretestuosa facciata di un’ideologia inesistente. Le dichiarazioni e le iniziative pubblicitarie servono a coprire un retroscena vuoto, attraversato soltanto dalle trame delle congiure, dagli ingranaggi degli inganni. In quel teatro, nemmeno gli attori sono veri. Sono marionette più o meno condiscendenti, che recitano in una sceneggiatura scritta a più mani sotto dettatura di una logica imperscrutabile, che premia gli uni e boccia gli altri. La risposta ad ogni domanda si esprime sempre in termini di vincitori e vinti. Ma anche Bertrand, in fondo, è un essere in carne e ossa. Una persona che prova amore e paura, mentre, dentro di lui, l’ambizione fa a pugni con la pressione psicologica a cui è sottoposto dall’incalzare degli eventi (un tragico incidente stradale con molte vittime) e dalle manovre di palazzo da cui è circondato. Di giorno tentenna, tra il dire e il non dire, incerto sulla distinzione tra amici e nemici e sulle alleanze da stipulare oppure sciogliere, e di notte è perseguitato da incubi grotteschi, in cui uomini senza volto decidono del destino suo e dei suoi simili. Lui, a ben vedere, è l’imbelle artefice di un’illusione sulla quale non possiede alcun controllo. Non si rende conto di quanto egli, al di là dell’apparenza solida e autorevole, sia una vittima indifesa del ruolo che riveste. Il senso delle istituzioni è stato soppiantato dalla inconscia, ma totale, sottomissione alle leggi che regolano la vita politica: il dovere è l’impegno a fare andare avanti quella possente e complicata macchina da guerra, costi quel costi. Lo si fa e basta, senza pensarci un attimo, senza accorgersi che a tutto c’è un limite, che non si è onnipotenti e che i pericoli sono sempre in agguato. Bertrand pagherà a caro prezzo questa delirante cecità, che si permette l’arroganza di sorvolare sulla vulnerabilità umana: una debolezza che il ministro riconosce negli altri e che crede di poter utilizzare a proprio vantaggio (con qualche iniziativa populista di sicuro effetto), ma dalla quale si sente immune. Sa bene di poter essere sconfitto, sopravanzato, messo da parte, però si dimentica che potrebbe morire. Il terrore del declino mette in ombra quello, molto più naturale e primitivo, di perdere la vita. E non c’è modo di tornare con i piedi per terra, nemmeno se si è posti davanti ad una fatale e cruda evidenza. Il politico prosegue indisturbato la sua corsa. E continua a nutrirsi di quel maledetto moto perpetuo. Impensabile voltare pagina, dato che ormai, anche di fronte al dolore, risulta difficile trattenere l’impulso alla retorica, e magari, una volta tanto, starsene in disparte e tacere. Questo film, con il suo andamento stentato, dispersivo, sfilacciato, interpreta in maniera esemplare la fatica della menzogna: la falsità, quando si trasforma in una pratica vitale, diventa una lucida follia, un sistema dinamico dal funzionamento casuale e incoerente, con il quale è quasi impossibile reggere il passo. La lentezza, in questo caso, è figlia del caos. Bisogna starci in mezzo per capire quanto può far male. E per essere, subito dopo, anestetizzati dalle sue vorticanti seduzioni.
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