«Lei parla di “fede nel cinema”: questo non implica qualcosa di religioso?» «No, è la religione piuttosto che ha qualcosa di cinematografico!» (Bruno Dumont)
Hors Satan è il film più maturo di Bruno Dumont, e rappresenta uno dei risultati più significativi del “nuovo cinema mistico” di questi anni – un cinema che ha annoverato nelle proprie fila, in modo più o meno trasversale, registi come Carlos Reygadas, Michelangelo Frammartino, Apichatpong Weerasethakul, Albert Serra e Terrence Malick. Hors Satan è anche il film che chiude la prima parte della carriera del regista, che ora sembra lanciarsi nella commedia grottesca con P'tit Quinquin (2014). Eppure, nonostante il carattere esplicitamente riepilogativo del film, che potrebbe far pensare a una ripetizione stanca di codici autoriali già sperimentati nei capolavori passati, le novità di Hors Satan sono talmente numerose da imporsi con incredibile immediatezza agli occhi dello spettatore, sebbene siano inserite dal regista in un contesto ormai pienamente riconoscibile – lo stesso de L'età inquieta (1996), L'umanità (1999) e Hadewijch (2009). Nel cinema di Bruno Dumont, infatti, gli elementi di partenza sono sempre gli stessi, eppure ogni film segna uno scarto con il precedente, una progressione nel discorso filmico, che da L'umanità in poi si è fatto sempre più cristallino e attuale, andando di pari passo con una sempre più marcata rarefazione narrativa. La trama di Hors Satan, da questo punto di vista, è davvero esemplare, ed è un po' lo scheletro delle vicende dei film precedenti di Dumont:
Nella Côte d’Opale, vive un uomo misterioso, Le Gars (“Il ragazzo”), capace di compiere dei veri e propri miracoli; una ragazza, Elle (“Lei”), si prende cura di lui.
Un lui e una lei, dunque, proprio come in Twentynine Palms (2003): assieme a quest'ultimo, Hors Satan è l'opera più teorica di Dumont. Una volta di più, il regista si impegna a togliere tutto il superfluo, svuotando la narrazione, castigando l’immagine e azzerando le psicologie, lavorando come lo scultore fa con il blocco di marmo. La convinzione che muove Dumont è che basta la messa in scena, il posizionamento della macchina da presa, il sonoro in presa diretta o uno stacco inaspettato del montaggio per inventare un tempo e un luogo “altri”, ovvero per fare cinema. Se c'è un regista che crede nel cinema, infatti, questi è Bruno Dumont. La sua fede nel gesto del filmare, però, non ha niente di religioso. Il titolo del film, “Hors Satan”, è emblematico: il cinema, per Dumont, è “fuori da Satana” e, pertanto, di riflesso, fuori da Dio, aldilà del bene e del male, ovvero fuori dal sistema produttivo che regola il cinema contemporaneo, sia commerciale che d'autore. Non solo, è un cinema fuori dal visibile, un cinema dell'invisibile. L'invisibile è, letteralmente, il fuori campo. La novità di Hors Satan è di non fermarsi all'evocazione del fuori campo, ma di rivelare, in certi casi, il fuori campo (l'invisibile) come il controcampo (il visibile) di un'immagine (p.e. un personaggio che guarda fuori dall'inquadratura). Come a dire che l'immagine (il cinema) è il "luogo" in cui visibile e invisibile combaciano. È ciò che succede nell'incipit di Hors Satan, che mette in scena l'invisibile come fuori campo parzialmente accessibile, perché lascia intravedere, nell'immagine, qualcosa di sé.
L'inquadratura, tenuta fissa per una ventina di secondi, crea una tensione fra ciò che lo spettatore effettivamente vede e ciò che vorrebbe vedere. La sequenza invita lo spettatore a interrogarsi sull'invisibile, e spiega bene il rapporto che il cinema di Dumont intrattiene con questa dimensione. Ciò che vede Le Gars, infatti, pur essendo nascosto allo sguardo dello spettatore, è presente nell'inquadratura: l'invisibile, allora, è l'immagine stessa. «Il cinema – dice Bruno Dumont – è ciò che permette di far posto allo straordinario nell’ordinario e di lasciar percepire ciò che vi è di divino negli uomini, di provarlo. La mistica dice “guardate la terra, e vedrete il cielo”. Ebbene, il cinema con i suoi strumenti può farlo.»
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