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Halt auf freier Strecke

Regia di Andreas Dresen vedi scheda film

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La recensione su Halt auf freier Strecke

di OGM
10 stelle

Per incontrare un altro realismo così umano, applicato alla malattia che uccide, dobbiamo tornare a La morte del signor Lazarescu. Il male è l’anomalia che naviga in mezzo alla normalità di tutti, di chi ne è portatore ma soprattutto di quella degli altri che, più sono vicini al centro della voragine, più avvertono il soffio del vento freddo che ne esce,  raggelando la vita. Frank Lange è un uomo come tanti, un padre di famiglia  incamminato verso la quarantina, che lavora per una ditta di spedizioni internazionali, ha due figli ed una moglie tranviera. Ama il rock degli anni novanta ed ha appena comprato una villetta monofamiliare in campagna. La strada verso il futuro, in quel tratto, si presenta apparentemente sgombra, ma, incredibilmente, qualcosa giunge all’improvviso ad imporre un’inattesa sosta. Il titolo originale tedesco usa una metafora sportiva, che fa pensare ad un percorso vincente interrotto in maniera repentina, e senza motivo; lo stop è la conseguenza di una terribile notizia che, nella scena iniziale, un medico cerca di porgere al suo paziente col massimo garbo possibile. Nelle sue parole, pronunciate lentamente e a fior di labbra, la verità si forma poco a poco, soffusa in un accento colloquiale ma anonimo e volutamente privo di intonazione, come per evitare di accendere, in chi ascolta, la pericolosa scintilla delle emozioni. Quelle frasi diluite dalle pause e dalle interiezioni, contro cui l’eloquio professionale finge di incespicare per noncuranza, sono una straordinaria introduzione ad una storia in cui linguaggio stentato e linguaggio indiretto si fondono per esprimere l’ineffabilità di una condizione che si può capire solo standoci dentro e sperimentando l’angosciante difficoltà a parlarne. Frank affida i propri pensieri alla videocamera del suo iPhone; si autoritrae mentre riflette, scherza, ricorda o delira, registrando così le trasformazioni del suo io,  terrorizzato dallo svanire dell’essere. Frank si  racconta per testimoniare che la sua mente è ancora vigile, parte attiva e presente dell’individuo a cui appartiene. E intanto, con quelle riprese in primo piano, eterna la sua immagine riflessa in uno specchio che domani potrebbe non trovare più. Mentre si perde, vuole fare il punto della situazione, registrando i momenti che ancora hanno un senso coerente con la sua storia personale. Ogni dettaglio può essere rilevante, purché sia messo attentamente a fuoco. Il suo armadietto nello spogliatoio, ed il collega che vi passa accanto. Il porcellino d’India ed il coniglio nano che teneva in casa da ragazzino. Una canzone strimpellata alla chitarra. Per Frank sono sfaccettature di se stesso, colte al volo e frammentarie, come i significati che, nel suo cervello aggredito da un glioblastoma, si stanno progressivamente smarrendo. Il suo andare alla deriva è una giostra che, nel suo vortice, trascina la quotidianità dei suoi cari, del piccolo Mika, che forse non è in grado di rendersi conto fino in fondo,  della giovane Lili, che è appena adolescente ed ha tanti sogni, e della moglie Simone, che lo cura con scrupolo ed affetto, fino allo sfinimento.  Volare via, tirando con sé i lembi di quella conviviale spensieratezza – una fine settimana al parco acquatico, una pizza, il cenone di Natale – può donare alla vertigine gli accenti colorati di un caleidoscopio fatto ruotare tra le dita: il gioco ha un effetto ipnotico, e, come la casualità del destino, è costruito secondo  le improvvisazioni della fantasia. La lotta è combattuta tra il buio che avanza e ciò che, nonostante tutto, riesce a restare bello come sempre. La rinuncia più dura è veder sparire ciò che una volta si dava per scontato: bere una tazza di caffè, aprire la porta del bagno. Queste scomparse sono le tappe di un viaggio che va narrato con naturalezza, seguendo il corso delle cose, che qui è più che mai imperscrutabile, ma non per questo può essere trattato con artificiosa reticenza. Un mistero tanto crudele non merita di essere riverito né con un contegnoso silenzio, né con gli scoppi dell’enfasi retorica. Se ne possono soltanto presentare le conseguenze visibili, scolpite nella carne, lasciando da parte gli interrogativi  trascendenti e concentrando lo sguardo sulla concreta manifestazione della sofferenza. Il film di Andreas Dresen ce ne mostra il profilo tagliente, ed irregolarmente seghettato, che a poco a poco squarcia il velo dell’illusione e dell’abitudine per preparare tutti al confronto ineluttabile col dolore.  Precipitare insieme, tenendosi per mano, anche se a cadere nel vuoto è uno solo: è questo l’esercizio di equilibrismo in cui sono impegnati i personaggi della storia, nella quale la malattia si amalgama, in maniera semplice, con le vicende di tutti i giorni, rifuggendo l’inutile razionalità dei discorsi teorici (filosofici, psicologici, religiosi) per tuffarsi nella sostanza vivente con una buona dose di coraggiosa visionarietà (un taglio da moicano che maschera la alopecia da chemioterapia, l’allucinazione in cui il tumore si fa intervistare in un talk show).  L’essenza di Halt auf freier Strecke è una narrazione farfugliata, eppure illuminante, che comunica lasciandosi contaminare dalle interferenze del mondo esterno e dalle insicurezze di chi non sa come spiegare ciò che gli sta accadendo. Un messaggio approssimativo e sporco, eppure brillantemente autentico.

 

Il film è risultato vincitore della sezione Un certain regard  del Festival di Cannes 2011. Numerosi importanti riconoscimenti sono (meritatamente) andati ai due interpreti principali, Milan Peschel e Steffi Kühnert.

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