Regia di Nadine Labaki vedi scheda film
I conflitti religiosi sono una piccola miseria umana. E sono, soprattutto, roba da uomini. Le donne ne sono apparentemente immuni. Nadine Labaki sostiene audacemente questa tesi in una commedia che, sostanzialmente, è una celebrazione dell’intuito femminile, che, in questo caso, si identifica con quel misto di sensibilità ed intraprendenza tipico di chi lascia perdere i precetti divini scritti nei libri sacri per vivere secondo natura e pensare con la propria testa. In uno sperduto paesino del Libano, la cui popolazione è equamente composta da cristiani e musulmani, questo spirito indipendente si traduce in un pacifismo casereccio e matriarcale, esercitato da mogli, madri, sorelle, coalizzatesi per tenere al guinzaglio i mariti, figli, fratelli, anche a costo di praticare il sotterfugio, la provocazione, il tradimento. Nel mondo circostante, le armi hanno ripreso a sparare e le opposte fazioni ad odiarsi, ma quel luogo deve rimanere preservato dalla violenza e continuare ad essere un paradiso di serena convivenza tra i seguaci di Cristo e di Maometto. Per raggiungere lo scopo, ogni mezzo è lecito, compresi i complotti miranti ad indurre i maschi in tentazione, avvolgendo le loro menti nella nebbia del vizio, in modo da distoglierli da più bellicosi propositi. La congiura culmina in una serata a base di dolcini all’hashish e bionde ballerine russe, realizzata con la complicità del sacerdote e dell’imam, ed ispirata al proverbio secondo cui a estremi mali, estremi rimedi. Tuttavia la surreale allegria della scena è funestata dalla presenza, dietro le quinte di quello spettacolo grottesco, di un giovane ucciso, il cui corpo è stato nascosto in un pozzo per non turbare gli animi e consentire al progetto di andare a buon fine. La carnevalata continuerà anche dopo, a dispetto del tragico pathos che testimonia teatralmente il dolore, impedendo il formarsi dell’umorismo nero: la superficie del racconto si mantiene, così, fino all’ultimo, inverosimilmente faceta, mentre l’essenza è tremendamente seria, tale da non permettere, in realtà, di scherzarci su. Se farsi la guerra è sintomo di ottusità, non per questo volersi bene è un gioco da ragazzi, in cui basta scambiarsi i ruoli e i vestiti per scoprirsi uguali. Le differenze esistono, e sono, anzi, una parte fondamentale della storia dell’uomo, la cui evoluzione è continuamente determinata dal contrasto tra le diverse identità culturali. Ignorarle non è indice di buona volontà, e banalizzare i problemi non contribuisce minimamente a risolverli. Questo film sembra voler proporre una sana confusione di costumi come antidoto al rigore integralista: una rivoluzione che riduce ogni legge ad una mera convenzione priva di significati concreti, perché formata da concetti e simboli aleatori, definiti solo per creare incomprensioni coloro che se ne fanno portatori. I miracoli, i segni liturgici, gli oggetti di venerazione vengono qui infatti usati, secondo le necessità, per unire o per dividere, per offendere o per riconciliarsi. Intanto, tutte le domande importanti restano senza risposta, compreso quell’inutile interrogativo che, di questo film, è il retorico titolo e l’artificioso epilogo. E ora dove andiamo? è un’accettabile opera di puro intrattenimento, a cui non giova nutrire ulteriori ambizioni: tanti sono i dubbi che lascia da parte, per portare avanti il suo messaggio positivo, troppo bello e limpido per essere vero.
Questo film ha rappresentato il Libano nella corsa al premio Oscar 2012 per il migliore film straniero.
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