Trama
In un piccolo villaggio libanese, un gruppo di cinque vedove si incontrano tutti i giorni per recarsi al cimitero in cui sono sepolti i mariti. Fanno insieme il tragitto fino al luogo ma poi, una volta lì, prendono strade diverse: alcune di loro, velate e senza orpelli, si dirigono verso le tombe musulmane, le altre invece verso quelle cristiane. Hanno appianato le loro differenze culturali nel nome della pace e del quieto vivere comune. Saranno costrette a confrontarsi con la realtà circostante che presto minaccerà il loro spirito d’unione, anche con curiosi espedienti.
Approfondimento
Il dramma sotto l'ottica della commedia
Lontana dall'idea di dover necessariamente raccontare con toni drammatici le differenze religiose che sono causa di scontri culturali nei Paesi dell'Estremo Oriente, la regista e attrice Nadine Labaki ha scelto i toni lievi della commedia ironica per offrire un punto di vista alternativo della situazione libanese. Originaria di Beirut e al suo secondo film da regista dopo l'apprezzato Caramel, la Labaki con E ora dove andiamo?, presentato in anteprima internazionale al Festival di Cannes 2011 dove ha riportato la menzione speciale del Fipresci, è riuscita a sbaragliare la concorrenza al Toronto Film Festival 2011, aggiudicandosi il premio come miglior film dell'anno.
«L’ironia si utilizza per affrontare le sfortune della vita, è una strategia di sopravvivenza, un modo per cercare di trovare la forza per riprendersi. In ogni caso, per me rappresenta una necessità. Desideravo che il film fosse una commedia più che un dramma e che riuscisse a provocare più risate che commozione», ha dichiarato la regista a proposito della scelta di ritornare ai toni della commedia, già usati nel suo precedente film.
Pur non menzionando mai la nazione in cui si svolge la storia raccontata, è chiaro che a far da sfondo alla vicenda sia il Libano anche se, secondo la regista, «la guerra tra due fedi è un po’ una legge universale. Potrebbe benissimo accadere tra Sciiti e Sunniti, tra bianchi e negri, tra due famiglie o due villaggi. È un concetto che sta alla base di qualsiasi guerra civile, in cui la gente di uno stesso paese si uccide, nonostante siano vicini di casa o addirittura amici.
Alla base del film vi è un’esperienza personale. Ho scoperto di aspettare un bambino il 7 maggio 2008. Quel giorno, a Beirut si passò nuovamente in uno stato di guerra e quindi, blocchi stradali, aeroporto chiuso, combattimenti armati, eccetera. La violenza si era scatenata intorno a noi. In quel periodo, stavo lavorando con Jihad Hojeily, un mio amico, nonché mio co-sceneggiatore e stavamo riflettendo sul mio prossimo film. In città c’erano scontri dappertutto nelle strade. La gente che aveva vissuto per anni nello stesso edificio, che era cresciuta insieme, magari anche frequentato le stesse scuole, improvvisamente stava combattendo contro altra gente, soltanto perché non appartenevano alla stessa comunità religiosa.
A quel punto mi sono chiesta: se io avessi un figlio, cosa farei per distrarlo dal fatto di prendere in mano un’arma e riversarsi sulle strade? Cosa sarei disposta a fare per fermare il mio bambino che esce di casa pensando di dover difendere il suo edificio, la sua famiglia o il suo credo? È così che è nata l’idea per il film.
Non è una storia sulla guerra; tutt’altro, semmai è una storia sul come evitare una guerra. Non puoi vivere in Libano senza sentirti addosso questa minaccia. Tutto questo finisce per ravvivare e dare colore a tutto quello che facciamo, così come anche ai nostri mezzi di espressione. Se hai un minimo di sensibilità per quello che ti accade intorno, è impossibile da evitare».
La realizzazione
Essendo una storia corale in cui ad essere protagonista non è solo il gruppo di donne al centro della vicenda ma tutto il villaggio che la circonda, per la sua favola - come lei stessa ama definire il film - Nadine Labaki si è ritrovata a dirigere in molte scene una schiera di attori non professionisti, presi direttamente dalla strada, a cui è stato chiesto anche di cantare e ballare:
«Mi piace giocare con la realtà, mettere persone reali in situazioni reali e lasciare che loro creino la propria realtà. Mi piace sperimentare usando i loro comportamenti, le loro voci, il loro modo di essere».
Attenzione alla realtà che si è fatta ancora più viva nella scelta dei set da utilizzare. Oltre ad aver girato nei tre villaggi di Taybeh, Douma e Mechmech, in cui accanto alle moschee sorgono le chiese cristiane, la regista e la scenografa Cunthia Zahar sono state attente a riprodurre per i set artificiali muri, edifici e pareti che portassero impressi il segno del passare del tempo e i residui dovuti ai vari bombardamenti. Stessa maniacale attenzione che Christine Labaki, sorella della regista, ha riservato ai costumi, suddivisi per sfumature di colore in correlazione alle categorie sociali, ai ruoli e alle età dei personaggi che avrebbero dovuto indossarli.
Pur allettata dalla possibilità di realizzare un lungometraggio internazionale fuori dai confini della sua patria, Nadine Labaki ha preferito girare il film nel suo Paese per offrire un ulteriore sguardo a una comunità che, nonostante le apparenze, ha ancora molto da imparare sul tema della libertà, a causa di un'identità che si fatica a raggiungere. Girando in arabo, grazie anche alla non intercessione del produttore francese del film, la Nabaki sottolinea la necessità di riappropriarsi della propria cultura, portandola ad antichi splendori che cancellino per sempre l'idea di una nazione martoriata da una guerra assurda, senza mai chiedersi quale sarà la prossima mossa da fare o cosa riserva il destino. E ora dove andiamo?racchiude tutto ciò proprio nel titolo e nella scena finale, in cui l'inconsueto gruppo di donne, raggiunto lo scopo prefissato, si chiede appunto quale sarà la loro prossima mossa, dove porterà la loro favola a lieto fine.
Trailer
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Commenti (2) vedi tutti
Diverte e riesce a trattare temi pesanti come i conflitti "religiosi" in modo serio senza cadere nella eccessiva drammaticità.
commento di negroMENO MALE CHE OGNI TANTO ESCE UN FILM COSI'
commento di fralle