Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Le prime inquadrature mi hanno fatto pensare al periodo di ritiro spiritualeartistico di Kerouac (v. la prima parte di "Angeli di Desolazione"): Kim Ki-duk è ugualmente disperso nella natura e allo stesso modo vive in maniera molto semplice in una baracca (o in una tenda all'interno della baracca); come Kerouac, si guarda attorno, taglia la legna, accende la stufa, mangia, si ubriaca, soprattutto pensa. Poi la confessione, la biografia necessariamente parziale (in entrambi i sensi) e capiamo che il ritiro è più inevitabile che voluto. Il suo soliloquio spontaneo (apparentemente dialogo fra lui e un altro lui, lui e la sua ombra, lui e noi) cattura, conquista. Non c'è più bisogno del film, questo è già un film senza esserlo. Kim Ki-duk è completamente onesto con noi? Non più di quanto ciascuno lo sia con se stesso. Quant'è vero il dramma? Le lacrime? Lui stesso ammette di aver pianto la prima volta per esaltare l'effetto drammatico. Eppure la disperazione "naturale" del regista, ma soprattutto dell'uomo, è palpabile. Se c'è finzione, è minima, quasi inesistente. Anzi, serve a rendere le cose ancora più vere.
Arirang- pezzo tradizionale coreano - diventa il suo canto di angoscia, personalizzatasporcata e di nuovo - come sempre, per tutti - il problema, il sunto, la parola è "solitudine". E "auto-tortura".
Il regista è personaggio, è persona comune - uno di "loro" - proprio perché parla con se stesso di se stesso delle sue delusioni, delle sue tristezze, del suo male di vivere personale e al tempo stesso comune, ordinario e tanto più terribile.
La conclusione è la parodia di un gangster movie, con tanto di cattivone stereotipato, ammazzamenti e fintovero suicidio. "Ready, action!" BANG.
Sulla trama
Oltre-film oltre-documentario. La vita. Tanto più grezzo quanto più efficace.
Su Kim Ki-duk
è più personaggio che regista. è anche commentatore.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta