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Arirang

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Arirang

di EightAndHalf
8 stelle

"Kim Ki-Duk, cosa stai facendo?". La vita non è altro che auto-tortura, sadismo e masochismo, e che Kim Ki-Duk pensasse questo lo sapevamo fin da Seom e ce l'aveva detto chiaro e forte, tanto che ancora quell'amo nella gola raschia le nostre certezze vitali più forte che mai. Con Arirang scopriamo chi è l'uomo che ha lanciato quell'amo, quello di cui tanti dicono "Fa film grezzi", o di cui tanti dicono "E' un grande regista", quello che ha voluto raccontare le realtà di tutti i tipi, e che da un'ingenuità violenta si era portato, con Primavera, estate, autunno, inverno...e ancora primavera, alla scoperta del sentimento profondo, percorrendo una ripida salita quasi impossibile, da 'puri di cuore', per poter raggiungere le vette della sincerità sentimentale. "Pensavo che la morte fosse l'ingresso a un mondo mistico, adesso è semplicemente il bianco che diventa nero", Arirang è il canto funebre di una crescita morale, è la fine dell'equilibrio esistenziale, distrutto da un lenzuolo che per esigenze filmiche in Dream stringeva il collo dell'attrice protagonista e che fu realmente pericolo per l'attrice stessa, senonché lo stesso Kim intervenne in tempo per salvarla, anche se non riuscì a salvare sé stesso. Il risultato è questo sfogo quanto mai personale, diretto a sé, realizzato con una videocamera digitale che in Amen sarà lo sguardo di una ragazza che cerca l'amore del suo uomo che le vorrà bene ma che la allontanerà da sé, perché dovrà ripararsi dalla vita con una maschera anti-gas. Quanto mai chiaro, quanto mai esplicito (come nessun'altro regista orientale è mai stato, se non il documentarista Wang Bing), Kim si chiede quale sia il confine tra realtà e finzione (il sottovalutato e semisconosciuto Real Fiction, neanche messo fra le locandine dei suoi film alla fine, è espressamente citato più e più volte), quanto esso possa aver influito sulla veridicità che aveva intenzione di imprimere nelle sue vecchie pellicole, quanto si riproponga anche nella rappresentazione della realtà della sua mera esistenza trascorsa in un capanno, in linea con un otium che è solamente vitale, ma che non procura nulla, non crea nulla, perché la capacità creatrice latita. E come avevano fatto molti altri registi (con più o meno abilità di questo splendido Arirang) Kim comincia a parlare di sé stesso, mette da parte la sua modestia e la sua immodestia, il suo orgoglio e la sua umiltà, dirige sé stesso semplice e diretto e si accorge della falsità della messa in scena, di quanto mai sia possibile questa realtà che vuole ricreare. Il documentario, che è anche un dramma o addirittura un film di fantascienza (parole sue), diventa specchio del suo punto di vista, anzi, dei suoi plurimi punti di vista, che si dibattono e si confrontano dentro la capanna desolata dei suoi ricordi. Piangendo di fronte al finale di Primavera, estate..., ricordando l'incidente di Dream, intervistando sé stesso, Kim cerca l'altro sé che lui violenta sadicamente vivendo in quanto la vita è solo auto-tortura, sadismo e masochismo, e vuole ucciderlo, vuole porre fine alle sue sofferenze. Ma quanto attaccamento alla vita, quanto desiderio di una nuova arte, qualsiasi essa sia, nel riprendersi, nell'osservarsi, nell'osservarsi riprendersi e nel riprendersi osservarsi, in giochi di specchi di grande potenzialità psichedelica che sono la frammentazione di una mente, di una creatività, di un genio che ha trovato nella fama la consolazione dalla solitudine, che ha trovato nella reale finzione cinematografica un paradossale ampliamento della solitudine, che cerca nella finzione ancora più vera di abolire la finzione stessa, perché è reale anche ciò che vediamo coi nostri occhi ed è soggettivo.
Il suo sguardo diventa improvvisamente eversivo, distruttivo, costruisce una pistola, il testamento cinematografico di una fantasia distrutta dalla presenza costante della morte buia: "vengo ad uccidervi..mi uccido", e il suo canto straziato, piangente e commovente, è la litania di una fine. Amen, vedrà tutto da una maschera anti-gas, attraverso le dita che incorniciano la campitura dello sguardo registico, per condannare la realtà e le sue dinamiche alla perdita del loro sogno. Che importa se il pubblico non adorerà i suoi film? Il suo atto sadomasochistico vorrà soltanto, d'ora in poi, essere dannoso solo a sé stesso. Raramente un personaggio del cinema si è denudato in questo modo, in maniera così diretta, esplicita, senza sottotesti, spiattellando tutto, e senza spreco di soldi (ha realizzato tutto da solo) ha chiesto disperatamente pietà. Kim Ki-Duk si è ucciso, ora è un fantasma che ci guarda dal buio della morte in cui continua urlante a vivere.

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