Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Nel 2008, durante la rappresentazione di un suicidio sul set di Dream, un incidente rischiò di far finire impiccata l'attrice Lee Na-yeong: il regista Kim Ki-duk, dopo 15 film diretti in 13 anni e con una reputazione internazionale ormai solida, fu colto da un improvviso quanto inesorabile blocco creativo. Quello che nel 2011 decide di ripresentarsi al pubblico per fornire una risposta sui suoi 3 anni di silenzio, è un uomo diverso, traumatizzato, cambiato: è un uomo che dorme in una tenda all'interno di una catapecchia eretta sull'orlo di un precipizio senza bagno né riscaldamenti, che taglia la legna per la stufa e con questa cuoce i frutti della coltivazione del terreno circostante consumandoli senza piatti né tavolini ma in ciotole come il proprio gatto, che raccoglie neve per farne acqua, che lava il viso e i denti e si rade utilizzando la stessa tazza, che riempie il tempo costruendo macchine per il caffè espresso sedie o anche pistole; è un uomo che s'interroga sul proprio ruolo nella Corea del Sud e nel mondo, schiacciato dal senso di responsabilità e dominato dall'urgenza di cercare un nuovo scopo da dare al proprio mestiere, un'urgenza che bussa alla porta di notte e non lo fa dormire, un'urgenza tale da costringerlo ad imbracciare la propria cinepresa Canon Mark II e girare Arirang.
«Ora non posso girare film, quindi riprendo me stesso», tiene subito a precisare. Arirang, infatti, non è un film: è piuttosto una lunga auto-intervista, un flusso di coscienza, una tappa fondamentale e necessaria all'interno di un percorso di autoanalisi. Scisso e ai limiti della schizofrenia, l'autore di The Isle e Bad Guy monopolizza la scena per cento minuti: cento minuti nei quali dirige produce e monta, puntando l'obiettivo esclusivamente su sé stesso, improvvisando risposte fluviali confuse e convulse a domande immaginarie poste dalla sua ombra o da un altro sé più lucido e risoluto, oppure rivolgendo le proprie elucubrazioni direttamente alla telecamera o più semplicemente a nessuno; cento minuti nei quali parla urla e piange, cercando altresì conforto in un canto popolare (Arirang, per l'appunto) che parla di auto-affermazione ma odora di auto-commiserazione.
Kim è un fiume in piena: riferisce della sua infanzia solitaria e dell'innata simpatia per gli emarginati come lui, della scoperta del proprio talento registico e dell'arrivo del successo, della paura di esser dimenticato dal pubblico e dell'ossessione di divenire il primo coreano a vincere il gran premio in un festival importante; con la ferma intenzione di indagare la ragione profonda della propria interminabile depressione, torna con la mente all'incidente che nel 2008 mise in serio pericolo l'incolumità della protagonista di Dream portando lui a modificare la propria concezione della morte (non più «una porta mistica su di un altro mondo», bensì «una porta che si chiude, o una luce che si spegne») e delle sue raffigurazioni all'interno del proprio cinema, per poi spostare bruscamente l'attenzione sul tradimento subito 2 anni più tardi ad opera del regista Jang Hoon e del produttore Jang Won-seok, collaboratori storici rei di averlo abbandonato nel suo periodo più buio per accasarsi presso una major.
Kim apre il proprio cuore ferito, nudo crudo e inconsolabile, cerca la radice del proprio impasse ma rivendica il diritto all'odio ed al dolore («la vita è sadismo masochismo e auto-tortura: torturiamo gli altri, veniamo torturati, e torturiamo noi stessi»), in un corto circuito emozionale che non conduce a soluzioni se non la più estrema, ovvero l'organizzazione dell'ultima messa in scena possibile: l'uccisione del proprio cinema e in conseguenza di sé stesso.
Ostico ma appassionato, autoreferenziale ma struggente, istintivo ma ponderato, imperfetto ed ambiguo, Arirang è un punto di non ritorno nella filmografia di uno degli autori più apprezzati e discussi del panorama cinematografico mondiale: forse il suo estremo saluto, forse l'inizio di un nuovo corso; senza dubbio qualcosa di unico, inevitabile, e genuinamente disperato.
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