Regia di Valérie Donzelli vedi scheda film
Juliette e Roméo (Valérie Donzelli e Jérémie Elkaïm) si innamorano al primo sguardo. Tra jogging, giri in bicicletta e baci sulle panchine del parco, la loro giovane unione genera un bimbo di nome Adam. I genitori guadagnano abbastanza per tirare avanti, ognuno con i propri sogni nel cassetto: la prima vorrebbe diventare una grande artista nel settore dell’abbigliamento e l’altro titolare di una casa discografica. Solo che Adam piange continuamente, viziato dalle numerose e asfissianti poppate imposte dalla madre. Poi, i primi 18 mesi del bimbo rivelano altri sintomi più preoccupanti: non cammina, vomita spesso e hai dei violenti attacchi di tosse. Il responso medico è uno dei più tragici.
“La guerre est déclarée” dipende principalmente da interessanti soluzioni di montaggio che separano le scene toccanti (non si arriva quasi mai al ricatto emotivo) da quelle liberatorie, in un susseguirsi di penetranti stoccate che danno risalto ai dettagli. Sfortunatamente la caduta di questo ritmo è dolorosa. Al susseguirsi di immagini essenziali subentra una voce narrante dai toni esplicativi che rende la vicenda troppo magniloquente (va da se che le vicende si rifanno a un vero accadimento occorso proprio ai due attori che recitano se stessi), raccontata attraverso espressività documentaristiche che fanno storcere il naso per la scelta della cifra stilistica.
Perché il suono è un elemento portante del film: si pensi al pianto del bambino, alle imprecazioni, al volume spesso survoltato di certe canzoni. Si aggiungano parentesi danzerecce, che aprono a sentimenti da musical, e duetti di karaoke a distanza a ribadire l’intesa dei due amanti, ed ecco insinuarsi il dubbio su come il film non sappia descrivere e approfondire la storia senza far ricorso a smielate fuori luogo e a tattiche adolescenziali in stile “La Boum”. Per non parlare dell’ardito componimento musicale che, se da un lato apre il cuore a un sentimento piacevole che distrae dal dramma, dall’altro sembra più adatto a un porno-soft (vedasi la scena in cui i protagonisti camminano in un corridoio dirigendosi verso la sala operatoria: è un momento di angoscia cruciale, attenuato da sbuffi di borotalco non richiesti ad alleviare i bruciori del culetto).
Nel tentativo di essere lievi e affrontare la malattia esorcizzandola, padre e madre abusano di un certo didascalismo filosofico che sconfina nell’idiozia. Ma non si tratta di sana e salvifica stupidaggine infantile, piuttosto di uno stancante peso narrativo incapace di naturalezza. La necessità di rendere privata ed esclusiva una storia così spinosa vede spesso Juliette e Roméo alle prese con parentesi poetiche che si alternano ad altre di stretto legame medico-scientifico, con intermezzi che potremmo definire di “corrotti” ammiccamenti, come se la guarigione dell’ensemble potesse passare attraverso una serie di non-regole. E la cosa è ancora più irritante se si pensa alla delicatezza del tema affrontato.
Non sorprende quindi trovare nella espressività della Donzelli un black out anomalo che esita tra momenti di splendore giovanile (probabilmente forzato per via della situazione) e depressione acuta, in una sofferenza che, forse perché proprio già vissuta, non è riproducibile nella finzione. Ammirevoli la volontà e l’applicazione al ruolo di Jérémie Elkaïm, attore da me già apprezzato in “Presque rien” di Lifshitz.
In definitiva, possiamo tranquillamente affermare che l’errore più evidente del film, oltre a quello di svelare all’inizio un destino che era meglio non conoscere, è quello della fin troppo progressista sceneggiatura scelta per l’operazione: nonostante sia io stesso un difensore della terapia del “bacio libero” alle feste di compleanno, rimango con l’amaro in bocca mentre assisto al tentativo di aggrapparsi a qualsiasi elemento “probante” questa sciagurata e drammatica esperienza, fatta di dialoghi spesso semplicistici, di affrettate descrizioni psicologiche dei personaggi di contorno (pensiamo ai genitori di lei, soprattutto il padre), e mancando di genuinità laddove questa era chiaramente la finalità principale dello scritto.
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