Regia di Valérie Donzelli vedi scheda film
La rappresentazione di un dolore vissuto in prima persona, un po’ troppo adulterata dal sollievo di avercela fatta, che autorizza i protagonisti a scherzarci su. Una maldestra imitazione della nouvelle vague in formato family. Una pretesa di autenticità che sconfina nel narcisismo. Valérie Donzelli scrive, dirige ed interpreta, insieme al compagno Jérémie Elkaïm, un film sulla malattia del figlio Gabriel, colpito a soli diciotto mesi da un tumore cerebrale maligno, poi per fortuna totalmente debellato. Una storia vera, che vorrebbe parlarci dell’angoscia di un padre e di una madre, e del loro matrimonio che va in crisi. E che, inopinatamente, ci viene servita nella veste di un mélo grottesco e lievemente allucinato, con inserti musicali e narrativi scopiazzati da Truffaut, e la presunzione di fungere da paradigma per tutte le love story segnate dalla sventura. Romeo e Giulietta: così si ribattezzano i due protagonisti, il cui bambino verrà chiamato Adamo, forse in riferimento all'uomo della Genesi, nato innocente, ma poi colpito dalla punizione divina. Intanto, il film, nell’ingenuo sforzo di non risultare lacrimoso, sostituisce il piagnisteo con un’isteria surreale, che, pur di evitare la tragicità, imbocca, a tratti, incomprensibili derive demenziali. Purtroppo il risultato è che non ci si commuove, ma nemmeno ci si diverte, di fronte al folleggiante adagio di uno spirito che si finge un po’ alternativo, un po’ autoironico, e che invece è soltanto celebrativo delle emozioni degli autori. Meglio sarebbe stato se questi ultimi, anziché intrattenerci con le solite scene in camice bianco - consulti medici e personaggi che camminano lungo i corridoi dell’ospedale – intervallate dai giochetti da giovani innamorati con cui Romeo e Giulietta cercano di tirarsi su il morale, ci avessero veramente illustrato le fasi del processo che ha portato alla disgregazione del loro rapporto, alla quale invece, accenna soltanto, verso la fine, il commento della voce fuori campo. La promessa a cui allude il titolo non è minimamente mantenuta: “La guerre est déclarée” rimane una frase sentita in un passaggio del film, con la quale, durante un notiziario radiofonico, viene annunciato l’inizio di un conflitto reale (probabilmente l’invasione dell’Iraq). Questo è un accostamento quanto mai azzardato, di cui sfugge completamente il senso, e che, soprattutto, non trova alcun valido riscontro nei fatti raccontati. I due protagonisti, dagli occhi perennemente languidi ed un’espressione stralunata da Pierrot incollata sul viso, non smettono mai di partecipare a feste danzanti, di fare insieme jogging nel parco, e inoltre smaniano come due ragazzini, con un'infermiera del reparto dov’è ricoverato Adam, per avere una camera in cui passare insieme la notte. L’annunciata metamorfosi, intorno a cui sembrava che tutto il racconto dovesse ruotare, si rivela, al contrario, la grande assente. Sorge il sospetto che sia stato il desiderio inconfessato di collocare la propria esperienza al centro del mondo a far dimenticare il nobile proposito di mettersi a nudo, inizialmente proclamato, ma poi platealmente disatteso. Su questa sconcertante contraddizione il pubblico ed i critici d’oltralpe hanno ritenuto di dover sorvolare, a giudicare dall’entusiastica accoglienza che il film ha ricevuto in patria, e che l’ha consacrato come candidato francese agli Oscar 2012. Una reazione proporzionata soltanto alla quantità di fumo prodotto da quest’opera, che tratta un argomento estremamente delicato, meritevole di ogni rispetto, ma che qui – ed è questo il motivo di maggiore irritazione - appare tristemente immolato ad un autobiografismo sensazionalistico, e ad una voglia matta di fare cinema a tutti i costi, al solo fine di strappare l’applauso, brindando al proprio lieto fine.
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