Regia di Daniel Auteuil vedi scheda film
L’esordio alla regia di Daniel Auteuil è il remake dell’omonimo film del 1940, uscito in Italia col titolo Patrizia, e scritto e diretto da Marcel Pagnol. La storia è una di quelle che sopravvivono alle mode, perché non c’è nessuna rivoluzione che possa rendere anacronistico il dramma dell’amore ostacolato dal divario sociale, spezzato dalla guerra, funestato dal lutto o dall’abbandono. La campagna della Provenza è la cornice ideale per esaltare la bellezza fresca e genuina della diciottenne Patrizia, une delle sei figlie di Pascal Amoretti, un vedovo il cui mestiere è quello di scavare pozzi. Un giorno la ragazza, partita da casa per portare il pranzo al padre, trova, sul suo cammino, un ruscello che dovrebbe attraversare a piedi. Mentre, esitante, è ferma sulla sponda, viene in suo soccorso Jacques Mazel, giovane ufficiale dell’aviazione e rampollo di una ricca famiglia di commercianti. Jacques prenderà Patrizia in braccio, e percorrerà così i pochi metri che li separano dalla riva opposta. Ciò basterà a far scoccare la scintilla fatale, che, durante un successivo incontro, avrà conseguenze compromettenti per entrambi. I pregiudizi, le difficoltà economiche, lo scoppio del secondo conflitto mondiale sovrappongono al romanticismo agreste contenuto nelle premesse il velo grigio di una realtà fatta di stenti, incomprensioni, di crudeltà che uccidono il sentimento creando disumane divisioni. Il quadro è duro, come si addice ad un mondo ancora impregnato del naturalismo alla Jean Renoir, e nel quale il contesto rurale è sede di una poesia selvaggia, plasmata nella consapevolezza che il destino individuale è una condanna per la vita contro la quale è inutile combattere. La figura di Pascal, irrigidita nel proprio primitivo senso della rettitudine, incarna la dignità contadina nella veste di un padre padrone virile ma in fondo bonario, capace di infliggere la pena dell’ostracismo ad una figlia considerata perduta, però in grado di commuoversi alla vista del nipotino di cui avrebbe voluto ignorare l’esistenza. Daniel Auteuil lo interpreta con la rustica sagacia che contraddistingueva Fernandel (presente nel film precedente, ma nella parte di Félipe Rambert, l’amico e collega di Pascal), senza con ciò tradire il suo stile recitativo sempre prudentemente sospeso, elegantemente soffuso intorno ai pensieri, circondato da un alone assorto che conferisce profondità anche alle espressioni più grezze. L’anima narrativa del cinema d’antan rivive così, sullo schermo, attualizzata da una drammaturgia che dà risalto all’individuo ed ai suoi travagli interiori, rendendolo protagonista dell’attimo ed artefice delle proprie emozioni. La raffigurazione dell’ambiente riesce ad essere efficace senza prevalere sulla descrizione dei caratteri, creando una visione d’insieme punteggiata di singoli accenti psicologici: tanti ritratti accurati e suggestivi, applicati allo sfondo di un paesaggio antico, però così genuino e senza trucco da sembrare senza tempo, forte di una semplicità che saggiamente lascia fuori le tentazioni estetizzanti della nostalgia.
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