Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
Quella che Östlund ci mostra è una società di classe brutale in cui svedesi rapinano svedesi, non importa da che parte stia il colore e da quale il bianco, una società dove l’indifferenza regna sovrana e l’individualismo impera.
Prima del più noto The Square, Palma d’oro a Cannes nel 2011, il cinema di Ruben Östlund aveva già imboccato con decisione la sua strada, una di quelle che fanno fare all’ autore il balzo in avanti che lo distingue dalla media e gli regala un marchio di fabbrica inconfondibile.
Stoccolma è la piazza di riferimento in The Square, maGöteborg, dove si svolge Play, è la stazione di partenza, tranquillo e popoloso centro portuale, il primo del Nord Europa, dove le severe facciate secentesche convivono con le linee urbanistiche più avanzate della modernità.
Dedicarsi all’osservazione delle dinamiche del potere sociale, fare analisi comportamentali servendosi della cinepresa, stabilire il piano-sequenza che tallona i soggetti senza soluzione di continuità come codice di riferimento base, le riprese dall’alto o a distanza come mezzo di cattura di un orizzonte vasto tutto da decifrare, questo fa del cinema di Östlund qualcosa di moltopoco visto e tanto più autenticamente cinematografico.
Certo non immediatamente fruibile dalle masse dei “pop corn in sala”, ma è normale.
Allora, prima di The Square cosa c’è?
Varie cose in odore di piccoli capolavori, film che qualche anno fa fecero decidere i direttori del Walker Art Center di New York di dedicargli una mostra dal titolo molto significativo:
“In Case of No Emergency: The Films of Ruben Östlund”.
In caso di Non Emergenza.
Infatti, l’horror puro è la normalità, il tranquillo scorrere del tempo nella quiete sonnacchiosa di placidi quartieri dove nulla sembra accadere.Una retrospettiva itinerante era già stata prodotta da Comeback Company, in collaborazione con Swedish Film Institute e Plattform Produktion, con il supporto aggiuntivo della Fondazione Barbro Osher Pro Suecia, l'Ambasciata di Svezia negli Stati Uniti e il Consolato Generaledi Svezia a New York.Dunque non proprio l’ultimo arrivato.
The Guitar Mongoloid (2004), Involuntary (2008),Force majeure (Turist) (2014) e il nostro Play (2011) erano i film proiettati.
Denominatore comune, l’acuta capacità di analisi del reale, da entomologo, da psicologo comportamentale, da filmaker che ha capito che un ruolo centrale del cinema è partire dal reale, filtrarlo con la fantasia e restituirlo più reale di prima.
In Play si parte da un centro commerciale, una delle agorà oggi più frequentate, amate, condivise, soprattutto da frotte di adolescenti in vena di avventure.
In questo nuovo Far West accadono cose, tipo piccole gang che inventano modi fantasiosi, autentici giochi di ruolo, per derubare i loro simili meno preparati alle leggi della strada e molto più tontoloni, figli di una buona borghesia più capace di ovattare il loro mondo protetto che di raccontare che fuori dalle “tiepide case” c’è la giungla dove le leggi sono inesorabili.
Un fatto di cronaca è il pretesto, più di 40 colpi messi a segno nel giro di tre anni da una piccola banda di ragazzi di colore tra i 14 e i 17 anni e oggetti di ogni genere derubati, con prevalenza assoluta di cellulari, il feticcio della vita associata, il Moloch dei nostri tempi.
Östlund gira un film che è un percorso esplorativo su modelli di comportamento individuale e sociale. I ragazzi, vittime e aggressori, sono individui ma anche anonime particelle di un corpo sociale, dicotomia tra le più spiazzanti, e tale da determinare i comportamenti individuati.
Cinque ragazzi di colore ben vestiti e attrezzati, omologhi dei tre svedesi presi di mira (uno è un ispanico naturalizzato), circuiscono i tre con ragioni molto convincenti, la c.d. “tattica del fratello”.
“Mi fai vedere il tuo cell?”
“Cosa credi? Che sia un ladro? Mio fratello è stato derubato del suo”.
Il ragazzo bianco mostra il cell.
“Vedi? Qui c’è un segno simile a quello che aveva il cell di mio fratello! Dammelo, lo porto da lui per controllare se è il suo”.
A questo punto ci si aspetta lo scatto, la difesa, la temperatura che sale.
E invece no, benchè perplesse e diffidenti le vittime cedono, non reagiscono, non chiamano neppure gli adulti che passano indifferenti.
Una tattica vincente del gruppo di colore è l’uso della non – violenza. Di tappa in tappa i tre saranno spogliati di tutti i loro beni e noi spettatori capiremo finalmente che bisogna smetterla di dichiararci increduli.
Play è un esperimento formale adottato da Östlund per dare corpo alle sue teorie.
Rispetto ai film precedenti ora si aggiunge l’elemento razziale.
Il regista parla della Svezia, “nascondiglio per maniere e coscienziosità liberale”, e provoca, fa dei ragazzi di colore gli aggressori, quelli che potrebbero fermarli temono di apparire razzisti, e l’alterco fra i due padri arrivati a cose fatte a strattonare il negretto della gang beccato per strada e la signora che li minaccia di denuncia per maltrattamenti a un minore è un capolavoro.
I rapporti tra apertura mentale e profiling razziale sono colpiti da tremende scosse telluriche.
All’uscita il film provocò un dibattito pubblico indignato nei mass media svedesi, soprattutto nei settori dell’estrema sinistra.
Jonas Hassen Khemiri pubblicò una lista in Dagens Nyheter, con il titolo "47 motivi per cui ho pianto quando ho visto il film di Ruben Östlund Play”.
Più che piangere noi ascoltiamo le ragioni del regista:
“Play parla di giovani ragazzi che derubano altri giovani ragazzi nel centro di Göteborg, dove vivo, ed è stato ispirato da eventi veri. Queste rapine andavano avanti da tre anni o qualcosa del genere, anche se le rapine si sono svolte in un centro commerciale con molti adulti attorno. Quindi non è successo che i bambini abbiano chiesto aiuto. Era come se il mondo dei bambini e il mondo degli adulti fossero su due livelli paralleli.
Ho parlato di questo con mio padre, che è stato allevato a Stoccolma negli anni '50, e mi ha detto che quando è arrivato gli hanno detto: mandalo fuori al centro della città per giocare. Se finisce nei guai tendiamo a guardarci l'un l'altro.
Ora c’è un cambiamento di atteggiamento. La società non è diventata pericolosa. La società è altrettanto sicura e talvolta anche più sicura. Play è un modo per provare ad abbracciare quel cambiamento di atteggiamento, e quindi per creare un nuovo contratto sociale su come dovremmo comportarci l'uno verso l'altro.”
Un nuovo contratto sociale. Quella che Östlund ci mostra è una società di classe brutale in cui svedesi rapinano svedesi, non importa da che parte stia il colore e da quale il bianco, una società dove l’indifferenza regna sovrana, l’individualismo impera, gli adulti portano i cagnolini a pisciare nelle aiuole e chissene se un ragazzino a terra è circondato da una turba vociante.
Spesso nei film di Östlund ricorrono interni di mezzi di locomozione urbana ed extra-urbana, bus e treni.
Quale migliore osservatorio della gente seduta o in piedi in balìa di teppistelli che prima o poi saranno scaraventati giù da altri teppisti, adulti stavolta, per il furto del cell ad una loro ragazza?
O se il controllore del treno si ostina a comunicare un messaggio assolutamente inutile (quando non sgrammaticato) mentre i passeggeri si sganasciano?.
Vita di tutti i giorni, uno specchio spietato di fronte a tutti noi, gli oppressi possono diventare oppressori, “il potere”, diceva uno che se ne intendeva “logora chi non ce l’ha”, le barriere contro cui ci scagliamo in nome di un politically correct di facciata ci sono perché siamo i primi a costruirle con una percezione dell’altro distorta, carente, nulla.
“Sempre, quando c'è un conflitto tra chi siamo e chi vogliamo essere, improvvisamente ci troviamo di fronte a un dilemma che ci fa comportare in un modo diverso. Penso che sia davvero il nucleo di un essere umano, che abbiamo a che fare con i nostri istinti e i nostri bisogni, e allo stesso tempo lo consideriamo razionale e coltivato, poichè siamo civilizzati. C'è uno scontro tra queste cose. Questo è ciò che è un essere umano. Siamo animali! Allo stesso tempo, ci impegniamo per l'uguaglianza. Ci impegniamo per essere giusti.
Una cosa è la conoscenza e l’educazione, questo è ciò in cui crediamo, la libertà individuale, sai che dovresti essere in grado di fare tutto ciò che vuoi con i tuoi soldi, e dovresti essere in grado di fare tutto ciò che vuoi con la tua vita.
Crediamo in queste idee sul potere del consumatore e cose del genere. Ma, seriamente, ci sono alcuni problemi su cui non ci accontenteremo mai a livello individuale. Voglio dire, se sto riciclando i miei sacchetti di plastica o no, penso che abbiamo bisogno di una regolamentazione a livello sociale. Alcuni problemi che dobbiamo affrontare sono a livello sociale e abbiamo bisogno di leggi e regolamenti per affrontarli.
Per me si tratta davvero di educazione economica. In molti modi, penso che Marx abbia ragione quando dice che si tratta di come facciamo quello che facciamo. Penso che questa idea sia molto importante. Siamo completamente imprigionati dalla posizione che abbiamo nella società. Dobbiamo capire che siamo formiche in una fattoria di formiche.”
Perché le vittime, pur avendo capito che di truffa si tratta, vanno avanti seguendo i loro aggressori fino alla fine, camminando tutto il giorno per strade e campi, sottoponendosi a prove ginniche assurde per avere il permesso di tornare a casa, fino a perdere tutti i loro piccoli averi? Eppure non sono minacciati, non sono oggetto di violenza fisica.
Una singolare “sindrome di Stoccolma”? Saremmo nel posto giusto. Temono di apparire razzisti? E’ il noto processo di assoggettamento del debole di fronte al forte?
Forse è tutto questo e altro ancora, Östlund ci costringe a porci domande scomode, senza risposta, probabilmente.
www.paoladigiuseppe.it
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