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Breathing

Regia di Karl Markovics vedi scheda film

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La recensione su Breathing

di Peppe Comune
7 stelle

Roman Kogler (Thomas Schubert) è un diciannovenne che è cresciuto in un istituto perché la madre lo abbandonò poco dopo la sua nascita. Roman sta scontando una pena detentiva in un carcere minorile a causa di un fatto delittuoso che lo ha visto coinvolto. Esce solo per lavoro, che è l’unico modo per potersi reinserire in società. La prospettiva di trovarne uno stabile potrebbe aiutarlo ad avere uno sconto di pena ed uscire prima dall’istituto penitenziario. Dopo diversi tentativi, l’assistente sociale (Gerhard Liebmann) che lo segue da tempo gliene trova uno in un’agenzia di pompe funebri. Avviene così che un giorno, di fronte al cadavere di una donna che porta il suo stesso cognome, a Roman viene la voglia di mettersi a cercare la madre (Karin Lischka). Anche perché lui è solo e fuori dal carcere non troverà nessuno ad aspettarlo. Una cosa che contribuirà a dare un po’ di calore alla sua vita grigia. 

 

 

 

“Atmen”di Karl Markovics è un film dalla struttura narrativa che evolve emotivamente poco alla volta, per scatti in avanti impercettibili e attraverso una messinscena asciuttissima che concede poco spazio a slanci spettacolari. Si seguono i turbamenti di Roman, un giovane ragazzo inquadrato dalla macchina da presa al culmine del suo disincanto esistenziale. Karl Markovics (che ricordiamo essere stato l’attore protagonista ne “Il falsario-Operazione Bernhard” di Stefan Ruzzowitzky) ci dice solo il necessario della vita passata del ragazzo, il resto è deducibile dal linguaggio del suo corpo, dal fatto di sembrare perennemente stretto in una morsa che non gli consente di aprirsi alla vita per come vorrebbe, tra il chiuso di un carcere che lo rimanda sembra alla sua triste solitudine, e il fuori alla strada, all’aria aperta, a contatto con un mondo che gli si presenta con molte incognite. Ci sono diverse sequenze che rendono abbastanza chiaro questo aspetto. Sin dall’inizio del film, quando ci troviamo all’interno di un’officina. Ad un certo punto si vede un uomo che infila sulla testa di Roman una di quelle maschere usate dai saldatori. Il ragazzo se la toglie di scatto ed emana un gemito rabbioso. Nel corso del film si avrà modo di comprendere il senso profondo di quel gesto, tanto semplice nel suo estemporaneo verificarsi quanto importante nella sua più schietta consistenza narrativa. Detto altrimenti, capiremo che Roman conduce una vita in apnea, intento a camminare lungo quella linea sottile che delimita il confine tra la vita che varrebbe la pena di essere vissuta e la morte che arriverebbe ad eliminare ogni turbamento. Poi ci sono altri segni evidenti che rendono centrale questa particolare condizione mentale : il fatto che ogni volta che Roman rientra in carcere deve soffiare dentro uno strumento che serve a controllare se ha rispettato o meno il divieto assoluto di non bere alcolici ; le indicazioni dell’istruttore di nuoto sul come gestire la respirazione in acqua ; il rifiuto deciso di indossare la “canonica” cravatta sul posto di lavoro. Roman è come costretto a misurare anche l’aria che respira, impegnato a rimanere a galla se non vuole togliere fiato alla sua esistenza, a svincolarsi continuamente dalla morsa soffocante di una vita priva di calore. È appunto il calore umano quello che è sempre mancato a Roman, che mostra di essere un ragazzo anaffettivo semplicemente perché gli è mancato di vivere l’esperienza formativa dell’amore filiale e non perché sia uno privo di sentimenti. Sarà per questo che prova terrore ed attrazione insieme per quel particolare momento in cui la vita e la morte intrecciano i rispettivi cammini, quando il corpo ancora caldo sta per perdere, insieme al calore, la sua vitalità, quando il respiro rimasto in gola desidera uscire per ridare ossigeno vitale al corpo. È in questo spazio torbido che torna spesso con la mente ed il corpo Roman, seguendo un percorso che, se da un lato trova un suo appiglio concreto nell’esperienza drammatica che l’ha condotto nel carcere minorile, dall’altro lato assume più la forma astratta di un ipotetico “pericolo scampato” rimastogli addosso e che solo l’incontro con la madre aiuterà a chiarirgli i contorni.

Sarà per questo che il contatto continuo con i morti, il fatto di doverli rinchiudere in una bara senza che i loro corpi ne abbiano a soffrire, gli fa acquisire un senso più compiuto sul limite che esiste tra un corpo che esige aria per poter continuare a vivere e un cadavere che non respira più. Sarà per questo, e non solo per una pura e semplice coincidenza, che grazie al corpo freddo di un cadavere lui trova la sponda ideale per tentare di dare una svolta sentimentale alla sua esistenza sfortunata.

È ancora una sequenza molto efficace a spiegarci per immagini questa evoluzione emotiva del ragazzo, quella che lo ritrae mentre decide di imparare come si fa il nodo della cravatta. Lo si nota con un volto più sereno e riappacificato questa volta, più preparato ad affrontare la vita a pieni polmoni e a svolgere il lavoro quotidiano a stretto contatto con la morte. Film interessante, da consigliare.           

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