Regia di Karl Markovics vedi scheda film
L’attore austriaco Karl Markovics, protagonista de “Il Falsario”, esordisce come regista e sceneggiatore, e candida la sua prima opera al premio Oscar 2012 per il migliore film straniero. Questa è una storia di claustrofobia. Al diciannovenne Roman Kogler manca costantemente il respiro. Perché da anni si trova in riformatorio, e nelle ore diurne esce solo per lavorare presso il servizio di polizia mortuaria della città di Vienna. Una mattina, vicino al cimitero, gli tocca entrare in un container, nel quale sono depositati numerosi cadaveri in attesa di autopsia, ed i suoi colleghi più esperti gli consigliano di prendere preventivamente una boccata d’aria. In carcere, quando rientra la sera, un agente lo fa soffiare nell’etilometro. Il suo istruttore di nuoto gli dà istruzioni come inspirare ed espirare. Roman non è padrone nemmeno della sua primaria funzione fisiologica, i suoi polmoni sono continuamente sotto stretta sorveglianza. Qualcuno, nella scena iniziale, gli cala sul viso una maschera da saldatore, e lui si ribella. Qualcun altro, alla fine, si preoccuperà del fatto che fumi troppe sigarette, ed anche in questo caso il ragazzo si sottrarrà al tentativo di invasione dei suoi spazi interiori. Roman è recluso perché ha ucciso un suo coetaneo, che aveva cercato di soffocarlo con una maglia: l’asfissia è il filo conduttore della sua esistenza, confinata, oppressa, legata alle cose inerti, come l’isolamento in cella, come gli esercizi di apnea, come le salme da comporre e trasportare. Il principio da seguire, per poter tirare avanti, è imparare a sopravvivere pur nella totale rinuncia alla positività, alla spensieratezza della gioventù, a tutto ciò che proietta sul cammino il riflesso della felicità. Roman non ha mai avuto una famiglia, dato che la madre l’ha abbandonato poco dopo la nascita. È cresciuto negli istituti, passando direttamente dall’orfanotrofio alla prigione. Di lui si occupa un tutore legale, con il quale, però, Roman non sembra intenzionato a stabilire un dialogo. Così, la sua esistenza procede in mezzo al vuoto, scandito dalla routine del macabro impiego - che si è procurato rispondendo ad un annuncio sul giornale - e dai rigidi orari di uscita e di rientro dalla casa circondariale. Ogni sua attività è contrassegnata da una severità senza gioia e senza prospettiva. I defunti non parlano, non ringraziano, non traggono alcun vantaggio dalla fatica, fisica e psicologica, che si compie intorno ai loro corpi. E, intanto, per i vivi, rimane solo il dolore, che acuisce le ferite preesistenti, perpetuandole in rimorsi e rimpianti. La signora Maleschitz si dispera di fronte al feretro della suocera, improvvisamente deceduta nella più totale solitudine. Un’altra donna urla e dà in escandescenze per un giovane morto accanto a lei in mezzo alla strada, a pochi metri dal parco dei divertimenti. Sono gli strazianti acuti dell’irrimediabile, che per le persone normali, nel vasto universo umano che si estende là fuori, si inseriscono come stilettate nel corso di un’esistenza libera e piena, capace di risollevarsi dalle sciagure; invece per lui, Roman, l’orfano delinquente, sono le note di una melodia monocorde, che costituisce, da sempre, la colonna sonora dei suoi giorni. L’atmosfera è densa e ferma, in questa storia in cui ogni concetto, nella prospettiva del protagonista, si definisce attraverso il criterio della negazione. Roman si sente dire che l’inferno sono gli altri, che si deve volere solo quel che è possibile: regole che escludono l’apertura verso la speranza di un futuro diverso, e chiudono tutto entro l’angusto recinto di ciò che già si conosce e possiede, e che non potrà mai crescere, né cambiare in alcun modo. Il ragazzo vede sfuggire, dal piccolissimo regno del suo io, perfino la certezza di un delitto compiuto con le proprie mani: non è stato proprio lui, infatti, ad uccidere Martin Stuppek, perché questi è morto qualche tempo dopo, all’ospedale. Resta soltanto un nome inciso su una tomba, che Roman andrà a visitare, pur essendo, anche quello, un luogo che non gli appartiene. La donna che l’ha partorito non l’ha amato, e, nei suoi confronti, si dimostra ancora indifferente. La vita e la morte lo respingono, in ugual misura. È come esserci trattenendo il fiato, immobili eppure presenti, vigili eppure impermeabili al mondo. Atmen è un capolavoro di opacità, che, nella sua narrazione ruvida e spenta, restituisce il lattiginoso riverbero di una continuità senza evoluzione: uno stadio indefinito, destinato suo malgrado ad essere l’ultimo, e ad eternarsi pur essendo nato come un qualunque punto di passaggio. È la fugace eco di un dramma che si potrebbe superare, ma che invece risuonerà per sempre, come l’interminabile accordo finale di una sinfonia incompiuta.
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