Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
“Nel XII secolo, nobiltà e clero possedevano immensi feudi che erano esenti da tasse nonostante le precarie condizioni dell’economia nazionale. Nella capitale regnava il caos, nelle province, la carestia e la guerra. Il clan di Fujiwara, che aveva tutelato per secoli la sicurezza dell’impero, non fu capace di porre rimedio alla situazione. Fu così che l’ex Imperatore Shirakawa, che si era ritirato in un monastero, riaffermò la sua autorità. Il Giappone si ritrovò così spaccato tra l’Imperatore monaco e la corte imperiale dell’Imperatore regnante Tobu. La nobiltà fece ricorso a dei guerrieri professionisti, i samurai. Anche i monaci crearono un loro esercito che portava innanzi a se i sacri palanchini, sacelli per le anime dei giusti. Così cominciò la lotta per il potere tra la nobiltà e il clero”.
Questo è il contesto storico in cui vengono rappresentate le vicende che riguardano il clan Taira, da quando il capitano Tadamori Taira (O-ya Ichijiro) torna da una vittoriosa campagna militare e subisce l’onta di non essere neanche ricevuto a corte, fino al momento in cui viene nobilitato dall’Imperatore “monaco” (Eijiro Yanagi) contro il parere dell’aristocrazia di corte. Passando per il percorso esistenziale del giovane Kiyomori Taira (Ichikawa Raizo), che scopre d’un tratto di non essere il figlio naturale di Tadamori Taira, che la madre (Kogure Michiyo) faceva la “dama di compagnia” ed era nota come la signora di Gion e che il matrimonio con il capitano fu imposto dall’Imperatore Shirakawa in persona, suo abituale cliente. Il giovane Kiyomori si ritrova così a dover scegliere se accettare come padre chi lo ha effettivamente cresciuto educandolo al rispetto dei sacri valori del samurai, o ricercare la paternità in quel vincolo di sangue con la casa reale che, oltre a riscattarlo dallo stato di indigenza in cui vive, gli garantirebbe una repentina ascesi sociale. I dubbi del giovane Kiyomori consentono a Kenji Mizoguchi di farne lo specchio attraverso cui riflettere i moti del cambiamento che percorrevano la società giapponese dell’epoca, cambiamenti che dovevano interessare direttamente il modo in cui era pensata la distribuzione del potere e che faceva leva, da un lato, sulla tracotanza illimitata dei nobili, sempre sprezzanti nei riguardi delle classi inferiori, e, dall’altro lato, sulle richieste legittime dei samurai che volevano vedersi riconosciuti un prestigio più congruo alla fedeltà incondizionata dimostrata all’Imperatore. Il tratto politico conferito al film è evidente, così come la preferenza di Mizoguchi per una lotta in fieri che doveva essere fatta per nome e per conto delle classi più deboli, ma ciò non toglie nulla alla centralità del carattere umanista che lo permea nel profondo, al fatto che in mezzo agli intrighi di corte, l’avidità per il potere, la strenua conservazione delle rendite di posizione acquisite, aspetti che estromettono l’uomo dalle comuni incombenze terrene per iscriverlo di diritto nel ristretto circolo dei privilegiati, c’è spazio in abbondanza per la fierezza oltraggiata della casta dei combattenti e per l’educazione alla vita di un giovane samurai, sentimenti veri, fatti di carne e ossa, paura e coraggio, che riflettono pulsioni dello spirito umanamente concrete. Come già era accaduto con “La vendetta dei 47 Ronin”, Kenji Mizoguchi parla del mondo dei samurai in maniera affatto convenzionale, evidenziandone cioè, non tanto l’eroismo del soldato o la temerarietà d’azione attraverso la rappresentazione di spettacolari scene di battaglia, quanto la fedeltà di casta carpita durante la quiete dello spirito guerriero. Detto altrimenti, più che all’epica del samurai colta nella sua dimensione ideale, il maestro giapponese mostra di interessarsi maggiormente all’uomo logorato da quell’insieme di valori di casta di cui si sente, allo stesso tempo, naturale portatore e convinto promotore. Diciamo che "Shin heike monogatari" ("La nuova storia del clan Taira" nella traduzione italiana) non arriva a farsi capolavoro come "La vendetta dei 47 Ronin" (cosa invero non facile), non ha la sua complessità psicologica e neanche la capacità di ergersi ad affresco storico di ampia portata, ma rimane un ottimo film, il penultimo di un maestro.
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