Regia di Eric Khoo vedi scheda film
Yoshihiro Tatsumi, nato nel 1935 ad Osaka, è l’inventore del gekiga, un genere di fumetti derivato dal manga, dal quale si differenzia per il suo alto contenuto drammatico. L’idea risale al 1957, ma solo negli anni settanta ha dato vita ad un filone di successo, grazie alla pubblicazione dei primi racconti su quotidiani a grande diffusione. L’anime di Eric Khoo, candidato di Singapore al premio Oscar 2012 per il migliore film straniero, ripercorre la biografia dell’autore inserendovi alcune sue opere originali: storie di solitudine, di abbandono, di frustrazione, sullo sfondo di una realtà moderna in cui l’orrore è un’entità nascosta, ma perennemente in agguato. In quelle vicende personali si leggono le tappe della recente storia del Giappone, dall’inferno di Hiroshima alla miseria materiale del primo dopoguerra, per finire con i risvolti deteriori della successiva ripresa economica, caratterizzata da una competizione incurante dei più elementari principi di umanità e di giustizia sociale. Ogni epoca produce i suoi relitti, che finiscono relegati in una marginalità degradata, contigua alla condizione animale, in cui si diventa assassini, o ci si abbandona agli istinti più bestiali, coltivando l’oscenità col pensiero o con atti concreti. Le immagini di Tatsumi ritraggono il melmoso intreccio in cui restano impelagati gli uomini e le donne che, in qualsiasi modo, vengono scaricati dal loro ambiente: un fotoreporter autore di un falso, un funzionario giunto alle soglie della pensione, un operaio rimasto invalido e disoccupato dopo un grave infortunio in fabbrica, un disegnatore fallito, una prostituta che si vende ai soldati americani. Inutile cercare la bellezza nella raffigurazione di una persistente situazione di sconfitta, individuale e collettiva, morale, economica o politica: una tragedia nella quale, tuttavia, è impossibile smettere di lottare. Un popolo orgoglioso, umiliato dall’esito dell’ultimo conflitto mondiale, onora la propria proverbiale perseveranza rifiutando di arrendersi all’inarrestabile avanzata di un male di proporzioni gigantesche, del quale le bombe atomiche sono state soltanto il fragoroso e pirotecnico preludio. L’incubo è una presenza ombrosa e strisciante, che si traduce in tratti di inchiostro nitidi e nervosi, attraversati da sfuggenti sfumature di inquietudine e da tenui accenti di sbigottimento. A seminare lo sgomento è la visione di un mondo cresciuto troppo in fretta, sconvolto dalla rivoluzione dei costumi, dal progresso tecnologico, dall’esplosione demografica. I repentini cambiamenti hanno gettato nel disorientamento la generazione nipponica diventata adulta durante la fase di occidentalizzazione del Paese: la crisi dei valori tradizionali ha provocato una cupa follia che sconfina nella volontà di autodistruzione, di annientamento della parte di sé che affonda le radici in un passato sconosciuto e sinistro, in cui forse è meglio non andare a scavare. Guardarsi indietro equivale a rivivere le radici di un disagio indefinibile, che si può solo affrontare a colpi di penna, coprendo i suoi fantomatici contorni con le innumerevoli espressioni del dolore. La consolazione proveniente dalla nostalgia è un rimedio impraticabile laddove ciò che ci si è lasciati alle spalle è solo un percorso travagliato, un tentativo di rinascita minacciato mille volte dalla disperazione. Lo stesso Yoshihiro non può annoverare, tra i suoi ricordi, che gli episodi della durissima battaglia di un giovane artista contro avversità schiaccianti, e la conseguente tentazione di mollare tutto. Un padre assente che non sostiene la famiglia. Un fratello malato che, in un accesso di rabbia, strappa tutte le sue tavole. Una mentalità perbenista che lo accusa di produrre opere volgari e diseducative. Ciononostante, Tatsumi ha fatto strada, portando avanti le sue verità scomode attraverso la tenebrosa giungla della negazione.
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