Regia di Ray C. Smallwood vedi scheda film
Sensuale, ferina, venale ma al tempo stesso capace di umanissime passioni, la Marguerite Gautier della Nazimova è una delle realizzazioni cinematografiche giustamente più celebri del personaggio di Dumas figlio. I rovelli psicologici che la guidano, nell'ambito di un'analisi caratteriale di grande finezza, appaiono con evidenza sin dall'inizio. Nel bel mezzo di una festa a casa propria, Marguerite, che fino ad allora ha danzato, riso e messo in opera tutte le sue arti seduttorie nei confronti di lenoni e vecchi bavosi, si ritira improvvisamente nella sua stanza nascondendosi la testa fra le mani in un gesto di disperazione a cui forse neanche la stessa Garbo, negli anni a venire, sarà rimasta insensibile. Lo straniamento, anche sul piano recitativo, è radicale. La malattia, che è anche male di vivere, provoca un dolore sordo che contrasta con la passione e l'edonismo manifestati fino a quel momento con tutto il repertorio di ammiccamenti, civetterie e strabuzzamenti d'occhi. Il tutto, entro entro la cornice modernista imposta dall'art director Natacha Rambova (all'epoca moglie di Valentino e, dicono le malelingue, amante della Nazimova) a costumi e scenografie. L'impronta art déco, che permea ambienti scenici e non solo (persino i titoli di testa sembrano disegnati da Aubrey Beardsley), parvero ai più manifestazioni di dubbio gusto. Oggi, però, quelle ragnatele disegnate, quelle carte da parati stilizzate, quegli ambienti stravaganti fungono da ideale inquadramento storico e psicologico della vicenda, tale da accentuarne la componente decadente, e costituiscono oggi un motivo di interesse a sé stante. Ma questa Signora delle camelie, già notevolissima sul piano interpretativo per la presenza della Nazimova, è anche quella in cui Rodolfo Valentino veste i panni di Armand. E Valentino – malgrado i giudizi mai troppo teneri dell'epoca – è un Armand straordinario forse soprattutto per i nostri tempi e per i canoni recitativi attuali. Incurante del rischio di essere eclissato dalla presenza ipertrofica di Marguerite sulla scena (oltre che dalla recitazione spesso esagitata della Nazimova) riesce a ritagliarsi un ruolo mai così sobrio ed efficace, che raggiunge l'acme nelle scene bucoliche verso la metà del film. Valentino sceglie di abbandonare la sua abituale screen persona di supereroe o maschio dominatore e apparirci qui come un giovane innamorato, senza eccessi o manierismi di sorta. E la Nazimova, che ben ne percepiva il carisma d'uomo e di attore, forse proprio per il timore di vedersi sottrarre la scena madre, impose agli sceneggiatori di escluderlo dalla fine del film. Ma la sequenza di Armand che, seduto sotto un albero, apre il volume di Manon Lescaut per leggerlo alla sua compagna è un piccolo capolavoro di sensibilità e realismo tale da farci riandare ancora una volta con la mente al doloroso destino di questo giovane uomo, e alla convinzione che il passaggio dal cinema muto al sonoro, fonte di carriere spezzate per tanti divi degli anni '20, lo avrebbe con ogni probabilità visto vincitore.
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