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Haunters

Regia di Min-suk Kim vedi scheda film

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La recensione su Haunters

di UjiOgami
10 stelle

Opera prima di un regista del quale sicuramente si sentirà parlare in futuro e che ha già esperienze importanti alle spalle, essendo stato aiuto-regista in film come The Host e The good, the bad, the weird con i quali condivide l’alto tasso di spettacolarità e intrattenimento, misti ad una forte impronta personale.

Davvero notevole questa rivisitazione urbana di uomini con superpoteri, a metà tra Heroes e Shyamalan, anche se a dire la verità la sinossi faceva temere potesse essere un brutto clone di un brutto film come Push. I timori però sono stati spazzati via sin dal prologo sul tragico passato di un ragazzino che ha il potere di controllare gli uomini con il solo sguardo (come accade al protagonista del famoso anime giapponese Code Geass) la cui vita scorre relativamente tranquilla tra piccoli crimini indisturbati fino a quando non trova un uomo in grado di resistere al suo potere. Byuk-nam, il vero protagonista della pellicola, cercherà infatti in tutti i modi di fermare la sua nemesi, la quale a questo punto andrà letteralmente in berserk tra deliri di onnipotenza e odio per l’umanità tutta (suggestive e di grande impatto visivo almeno due scene sul tema), scatenando una furia distruttiva e incontrollabile. In questo fantasy-thriller dalle tinte cupe (tante scene notturne, tanta pioggia) la difficilissima caccia all’uomo di Byuk-nam procederà, seppure con una certa meccanicità nel susseguirsi degli avvenimenti, in un crescendo teso  e vibrante, durante il quale la tensione drammatica si farà sempre più palpabile fino al confronto finale con l’antagonista, nel più classico degli scontri tra Bene e Male.

Al di là di un comparto tecnico a cui è difficile muovere critiche, soprattutto per quanto riguarda la fotografia e una colonna sonora straniante sfruttata in maniera originale, è molto interessante notare l’uso che il regista fa degli outcast, gli emarginati, con il quale sembra riecheggiare alcune delle tematiche care al primo Miike (e, secondariamente, al fumetto supereroistico americano). Qui, come nel regista giapponese, sono gli emarginati – il protagonista all’inizio lavora in uno sfascia-carrozze, mentre la sua nemesi vive solo e senza contatti con altre persone – ad avere i poteri, sono quindi diversi dai “normali” esseri umani; questo scarto è avvertito in maniera dolorosa da entrambi in un sentimento che però  porta a due opposte reazioni. Da una parte sfocia in un odio cieco e distruttivo, dall’altra in una forte empatia per gli esseri umani in generale e per i più deboli in particolare. Tra queste due psicologie la meglio analizzata dal regista è sicuramente la prima, grazie soprattutto all’ottimo prologo, ma anche alla crescita del personaggio che arriva alla dolorosa consapevolezza che la sua invisibilità  lo ha portato (porterà) a non esistere più, non solo sul piano prettamente fisico ma anche su quello emotivo, perchè se è vero che può entrare in una banca e rapinarla senza che nessuno se ne accorga, lo stesso non si può dire per l’animo umano. Il tema degli ultimi della società e la vicinanza a Miike si ritrovano però soprattutto nello straordinario uso delle due spalle comiche del protagonista, un turco e un ghanese che parlano coreano perfettamente, in grado anche di esprimere un’ottima intensità nei momenti decisivi: impossibile non tifare per loro. Peccato per il finale, se il regista avesse avuto il coraggio di mettere la parola fine cinque minuti prima ne avrebbe guadagnato in potenza e completezza, evidentemente le dinamiche commerciali hanno influito anche qui.  

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