Regia di Lone Scherfig vedi scheda film
La svolta drammatica nel finale, per quanto annunciata, ha l’effetto di destare dal sopore solcato dai consueti rivoli di sentimentalismi e fatalismi esibiti con la speranza di causare profluvi di lacrime, addolcibili con la tenerezza calcolata delle ultime scene. Ma la reazione è blanda, fugace, evapora ai titoli di coda; negli occhi lo schermo nero inghiotte la memoria a breve termine di quanto appena visto.
Non un brutto film, comunque, però privo di reale efficacia, non cattura quanto vorrebbe e non si distingue dalla miriade di pellicole simili. Certo, cerca di farlo con quella che è, sin dal titolo, la sua peculiare attrattiva: raccontare l’evoluzione della relazione di un uomo e una donna nell’arco temporale di vent’anni ma concentrato in un unico giorno, il 15 luglio. Compagni di università, amici, confidenti, amanti; uniti, distanti, infelici, felici, accoppiati ad altri, insieme. C’è tutto quello che ci s’aspetta e che serve a suscitare un’empatia che tuttavia scatta precisa: nelle gemme sospese e non sbocciate di un complicato rapporto che è qualcosa di più di un’amicizia, o, più semplicemente, di altro, è facile riconoscere frammenti (più o meno importanti) del proprio vissuto.
Ma - e qui sta il difetto principale della pellicola diretta da Lone Scherfig -, non viene approfondito (e, di conseguenza, esposto) con sufficiente chiarezza e credibilità il motivo, la scelta dei protagonisti di vedersi o sentirsi un giorno specifico, al di là della circostanza iniziale (la laurea). Cioè: e gli altri giorni dell’anno? non si frequentano, non si telefonano? E perché mai? Poche ore trascorse al primo, casuale incontro e immediata scatta un’intimità che dura alle intemperie del tempo che scorre, inesorabile, ma solo un giorno all’anno. La sceneggiatura (ad opera di David Nicholls, autore del romanzo da cui è tratto One Day) ha le sue colpe, quindi, anche nell’approssimazione con cui tratta lo sviluppo e l’interazione con gli altri personaggi, e con temi abbozzati e niente affatto essenziali. Restano sullo sfondo, opachi e confusi, insignificanti.
Qualche battuta buona e sagace c’è (soprattutto quelle messe in bocca ad Anne Hathaway) ed inoltre la narrazione dilatata lungo due decenni (a partire dal 1988) permette di fare della (facile) ironia e critica di un passato recente, al quale si guarda con simpatia mista od orrore. Emblema di ciò è certa tv spazzatura allo stato embrionale di cui il protagonista maschile è un rappresentante, poiché presentatore di beceri programmi televisivi ("donne chiuse in una gabbia. Dove andremo a finire?" gli chiede la madre che non lo considera più una "bella persona"). Canzoni suonate e film citati (tra gli altri: L'armata delle tenebre; Jurassic Park) completano l’effetto nostalgia.
Pure la regia è tutt’altro che convincente: è poco incisiva e si adagia mollemente su un uso convenzionale di flashback e inquadrature (anche simboliche, come la scalata della collinetta), influendo nettamente sulla coltre di noia e già visto/sentito che ammanta la visione, già gravata da una tenuta incerta e sicuramente non irresistibile.
Le interpretazioni, seppur discrete (in particolare la Hathaway), non offrono né aggiungono nulla di rilevante, adeguandosi alla fragilità e all’inconsistenza dell’intera operazione.
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