Regia di Umberto Lenzi vedi scheda film
Foster, avventuriero inglese, viene incaricato da un rajah di rubare un enorme diamante chiamato 'la montagna di luce'. Ci riesce e, anche grazie all'intervento di un fachiro doppiogiochista, fa in modo di tenerlo per sè; soltanto l'amore per una bella ragazza del luogo lo convincerà a restituire il prezioso sottratto. O una sua copia.
Emilio Salgari veniva saccheggiato con una certa puntualità dal nostro cinema di quegli anni, in modo particolare nella prima metà dei Sessanta, quando il genere esotico/avventuroso ebbe il suo picco: soltanto nel triennio 1963-65 vennero prodotte ben otto pellicole alla cui base stavano le pagine dell'autore di Sandokan. Si trattava comunque di lavori generalmente sciatti e confezionati alla buona in temi rapidi, tanto da suggestionare e convincere un pubblico dagli appetiti facili che trovava ancora nel cinematografo una delle principali e più convincenti evasioni, fra avventura, scenari da cartolina e ovvio lieto fine; Umberto Lenzi nello specifico diresse anche Sandokan, la tigre di Mompracem (1963) e I pirati della Malesia (1964), oltre a un paio di lavori salgariani ‘apocrifi’ che oggi potremmo definire spin-off come Sandok, il Maciste della giungla e I tre sergenti del Bengala (entrambi del 1964). La montagna di luce offre, con una sceneggiatura scritta da Lorenzo Gicca Palli, ritmo e azione per un’ora e mezza, con innocentissimi e prevedibilissimi intrighi perpetrati da monodimensionali personaggi, nel segno di una telefonata vittoria del buono-occidentale in palese odore di razzismo nei confronti della civiltà indiana e dei suoi usi e costumi. Richard Harrison, Wilbert Bradley, Liliana Gilli, Daniele Vargas, Andrea Scotti e Giovanni Cianfriglia sono i volti principali del cast: tutte valide seconde linee, nessun nome di particolare richiamo, ma visti i limiti dell’operazione la cosa non sorprende affatto. 2,5/10.
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