Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
Una donna americana, trovandosi a Hong Kong, contrae un virus sconosciuto che al ritorno in patria trasmette prima al suo amante a Chicago e poi a suo figlio a Minneapolis, dando origine a un’epidemia di portata planetaria. Credo che in molti abbiamo provato a immaginare come il cinema racconterà il Covid-19 (un pensiero sgradevole, per quanto quasi inevitabile); ma già una decina di anni fa Soderbergh si era portato avanti con il lavoro, realizzando un film angosciante, semidocumentaristico e drammaticamente profetico. C’è tutto ciò che abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi mesi: quarantene, limitazioni della mobilità, distanziamento sociale (viene usata proprio questa espressione), assalti alle farmacie e ai supermercati, militari nelle strade, la corsa al vaccino, l’eroica abnegazione di medici e ricercatori (tre bei ruoli per Kate Winslet, Marion Cotillard e soprattutto Jennifer Ehle), i bufalari che imperversano sul web; solo il rapimento del funzionario OMS per far avere il vaccino a un villaggio cinese mi sembra un po’ eccessivo (ma chissà...). Si comincia dal giorno 2, con la macchina da presa che indugia volontariamente sulle superfici e sulle mani che le toccano; poi i giorni scorrono l’uno dopo l’altro, mentre l’evoluzione del virus viene scandita da implacabili didascalie che forniscono nome della città e relativo numero di abitanti; si finisce con il giorno 1, quello in cui tutto era iniziato, quando il virus era passato da un pipistrello a un maiale a poi a un uomo. Prima però c’è un sottofinale felpato: non un Victory Day in cui tutti festeggiano simultaneamente ma una liberazione graduale, con una lotteria sulle date di nascita per stabilire come distribuire il vaccino alla popolazione e con braccialetti per riconoscere gli immunizzati. Prendiamolo come un augurio per il futuro.
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