Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
Diamo a Soderbergh quel che è di Soderbergh. Perché di motivi per trovare Contagion un’opera di alto interesse ce ne sono. Nel raccontare una possibile epidemia prossima ventura, il regista preferisce alla retorica kolossal catastrofista un realismo dettagliato della messa in scena, colto da un digitale privo di vezzi, corrispettivo visivo di un film che mai si lascia sedurre da facili drammatizzazioni. Ne esce l’analisi di un meccanismo in stato di crisi, la radiografia di un sistema (politico, economico, sentimentale) corrotto, ambiguo, inadeguato. Così Soderbergh, sull’onda lunga di Traffic, sfida i tornanti tortuosi del cinema di Arriaga e Iñarritu, con uno script a effetto domino su scala globale. E con il coraggio di sacrificare l’appeal del cast sull’altare di una narrazione frammentata, impossibilitata a rendere giustizia ai singoli personaggi e disinteressata a salvare (anche eticamente) l’umanità messa in scena solo perché interpretata da star. Ciò non toglie che la combinazione chimica tra canone e scarto, tra animo commerciale e spinta trasgressiva, produca un oggetto più affascinante sulla carta che sullo schermo, un’operazione sostanzialmente inerme, una formula matematica che si vorrebbe sofisticata ma conduce a un risultato sterile, ulteriore esempio di una maniera automatica che gioca a sporcare le regole del cinema mainstream con calibrate eccentricità. Perché Contagion, nonostante le pregevoli premesse, rimane il prolisso verbale messo in immagini di una plausibile disgrazia, così freddo e frammentato da non poter coinvolgere lo spettatore nella narrazione e al contempo privo di una forza estetica che riesca a sopperire a questa mancanza.
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