Regia di Antonio Negret vedi scheda film
L’horror è fatto per abbracciare disinvoltamente il mistero. E quando manca d’ambizione, è solo incomprensibilità resa accessibile da un rivestimento di stereotipi. Come, ad esempio, i legami telepatici tra gemelli omozigoti. Oppure il sadico utilizzo della videocamera per filmare scene cruente. In questo film l’obiettivo di Antonio Negret è come uno sguardo penetrante che si posa sul banale, cullandosi un po’ in un surrealismo alla David Lynch che si riduce ad un puro escamotage estetico, senza sbocchi razionali, né sospesi nell’assurdo. Un patchwork intinto negli incubi eugenetici e nelle ossessioni sataniche, che ci serve una macedonia a base di fuoco, lame, vetri rotti, ratti e parassiti vermiformi, senza mai costruire l’abbozzo di una visione, né una credibile ipotesi di paura. Il racconto si attesta sul registro del teen horror, sia pur in una sua versione più rarefatta e cerebrale, in cui perfino l’allucinazione è frutto di un progetto, basato su una sperimentazione parapsicologica e multimediale. La ricerca di una imprecisata sensazione, da parte dei gemelli Jonah e Seth, si traduce in una serie di assassini a distanza, sotto forma di suicidi indotti con la forza del pensiero. Una scia di sangue intorno a cui la vicenda rimane sostanzialmente ferma, senza approfondimenti investigativi né speculazioni filosofiche. Non c’è nulla da scoprire in un fenomeno che, da un lato, risulta subito palese, e, dall’altro, si presenta dentro un contenitore ermetico, come qualcosa che non voglia essere spiegato. Ciò che ammette sono soltanto i variegati fronzoli apposti alla sua confezione, pari a tanti fili svolazzanti, che aprono mille potenziali traiettorie di sviluppo, ma poi non ne percorrono nessuna. La suggestione è come un disegno rimasto compiuto: una pennellata di gusto registico che si posa sulle immagini come una cadenza artistica fine a se stessa, senza conferir loro un carattere, né un ruolo specifico dentro alla storia. Gli occhi blu dei due gemelli, su cui la macchina da presa volentieri pone l’accento, potrebbero essere gli accessi a qualche verità nascosta: invece rimangono lì a fissare il vuoto, a non vedere quel qualcosa indefinito che disperatamente cercano. Un nulla che, evidentemente, non ha preso forma nemmeno nella mente dell’autore, e per questo fa mancare, all’intero impianto narrativo, quel fondamento che potrebbe conferire all’insieme l’impronta, almeno virtuale, della presenza viva di un’idea. Questo Seconds Apart non attiva l’immaginazione, perché dice l’ovvio e tace tutto il resto, creando solo un ammasso di spunti di repertorio, troppo confuso per sembrare una risposta, e troppo informe per assomigliare a un enigma.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta